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Il posto fisso degli anziani? Lo pagano (caro) i giovani precari

di Gianni Balduzzi

I vecchi lavorano negli ambiti in cui il contratto a tempo indeterminato resiste maggiormente, mentre i giovani al contrario sono presenti dove il precariato è spesso la regola: commercio, ristorazione, turismo. La conferma dell’apartheid che ha colpito le fasce più giovani dei lavoratori

Che l’età media dei lavoratori italiani stia crescendo è cosa risaputa. Non si tratta solo dell’invecchiamento naturale della popolazione, ma anche delle dinamiche occupazionali che la crisi economica e le riforme delle pensioni negli anni scorsi ha prodotto.
Da un lato infatti a perdere il posto nei momenti di recessione sono stati soprattutto coloro che avevano contratti più sacrificabili, i giovani, appunto, dall’altro la permanenza al lavoro di migliaia di over 55, quasi sempre con contratto a tempo indeterminato, dopo la legge Fornero, ha cambiato il volto demografico di moltissimi settori economici.
Anche se non nello stesso modo.

In media i 15-34 enni sono oggi solo il 22,2% dei lavoratori italiani. Il 58,4% ha tra i 35 e i 54 anni. Mentre il 19,4% ha più di 55 anni.
E tuttavia si tratta di medie del pollo. Ci sono enormi variazioni tra settore e settore.
In alcuni i giovani sono una rarità ancora maggiore. In particolare nel pubblico.
Sono solo l’8% nella Pubblica amministrazione e nella difesa, e il 10,1% nell’istruzione. Pochi anche nei servizi per la famiglia, il 14,9%, e le attività finanziarie, il 17,2%.

Al contrario è nell’ambito degli alloggi e della ristorazione che l’incidenza dei 15-34 enni è maggiore. Sono qui il 39,7%. Peso superiore alla media anche nel settore del commercio.
Al contrario gli over 55 sono il 32,1% nel settore dell’istruzione, il 29,6% in quello della PA, il 27,2% nell’agricoltura, il 24,8% nella sanità.

Si noti come siano di più prevalentemente negli ambiti in cui il contratto a tempo indeterminato resiste maggiormente, mentre i giovani sono al contrario presenti laddove il precariato è spesso la regola, commercio, ristorazione, turismo, appunto.
Questi dati però sono l’esito di un cambiamento avvenuto in modo piuttosto veloce negli ultimi 10 anni, in cui il peso del lavoro dei giovani è calato in maniera piuttosto diseguale.
E’ singolare come l’unico settore in cui c’è stato un piccolissimo aumento dell’incidenza dei 15-34enni sia stato l’agricoltura, con un +0,3%.
Un ritorno alla terra che appare come una conferma in realtà della crisi e degli ostacoli che i giovani hanno di fronte in settori a maggiore valore aggiunto, a maggiore contenuto tecnologico, in cui dovrebbero invece trovare più spazio, in quanto più istruiti della media.
Per esempio nel caso dell’industria il peso dei giovani è sceso dell’ 11,5%, In quello dell’informazione e comunicazione dell’11,3%, come in quello delle attività finanziarie, a fronte di una media del -8%.
E non è un bel segnale che nelle professioni non qualificate invece sia calato meno, del 6%, rispetto che in quelle invece qualificate e tecniche.
Più consolante che nell’istruzione e nella sanità il decremento sia stato solo del 4,5% e del 3% rispettivamente. Ma si partiva da una incidenza veramente bassa.
E il blocco del turnover nel pubblico ha avuto un enorme effetto se proprio negli ambiti in cui il ruolo dello Stato è maggiore è aumentata di più l’incidenza degli over 55. +14,3% nella PA, +10,9% nella sanità, +10% nell’istruzione. La media è di un +7,1%.

In particolare nell’ambito dell’istruzione il confronto con gli altri Paesi OCSE è particolarmente stridente.
Se da un lato anche altrove la scuola e l’università sono i settori in cui è più facile trovare un lavoratore 50enne o 60enne, dall’altro la vera differenza è nella presenza dei giovani.
In Germania, Austria, Belgio, Paesi Bassi, USA, la proporzione di insegnanti under 30 supera anche quella degli under 35 in Italia.

Per un confronto più complessivo invece sono disponibili i dati americani.
In USA gli under 35 occupano il 36,9% delle posizioni lavorative, contro il 22,2% in Italia.
Nella PA sono il 24,9% contro l’8% nel nostro Paese.
Grandi differenze anche nella sanità. Anche nell’ambito della ristorazione e dell’alloggio, quello in cui in Italia vi sono più giovani, il 39,7%, negli USA si raggiunge un’incidenza degli under 35 del 61,1%.
In nessun settore rilevante si scende sotto il 20%, soprattutto grazie al segmento tra i 25 e i 34 anni, che risulta quello più presente.
Si tratta di un gap che non può essere giustificabile solo con la diversa demografica. Gli USA sono un Paese più giovane del nostro, ma non così più giovane.

In realtà, lo si è già detto da più parti mille volte, si tratta dell’ennesima conferma dell’apartheid che negli ultimi 25 anni ha colpito le fasce d’età più basse all’interno del mondo del lavoro.
Lo sappiamo già. La cosa più grave è che ha colpito in modo asimmetrico.
I settori che stanno trainando la ripresa, come l’industria ad alto valore aggiunto, che macina fatturato, ma in cui vi è meno bisogno di manodopera perchè ad alta tecnologia, hanno negli ultimi anni di crisi sacrificato più giovani, meno protetti, rispetto a quelli con margini bassi come la ristorazione, in cui ora si sta assumendo di più, perchè più bisognosi di braccia, ma poco specializzate e poco pagate.
Non ha aiutato un blocco del turnover pubblico quanto mai zelante che ha deprivato la Pubblica Amministrazione di forze giovani quanto mai utili.

Una nota di speranza: gli ultimi dati ISTAT ci dicono però che negli ultimi mesi sono proprio i giovanissimi che stanno godendo di più, alla pari con i 55-60enni, dell’aumento di occupazione.
E’ ancora una tendenza troppo breve per poter rappresentare una svolta. Spesso si tratta di contratti precari in realtà non molto produttivi. Ma potrebbe essere una luce per la generazione più dimenticata.

(da www.linchiesta.it)

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