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Non solo Ilva di Taranto, così la sinistra antimoderna sta azzoppando il Sud

di Alessio Postiglione

L’opinione dominante in buona parte della sinistra è un’ideologia in fondo antimoderna, secondo cui al Sud lo sviluppo industriale è inutile, e si può vivere di turismo e mozzarelle. È un’ondata ”neoborbonica” che rischia di fare il gioco della Lega

Uno spettro si aggira per la Puglia. Lo spettro del comunitarismo. Un’ideologia ruralista e antimodernista, che dietro l’apparente patina di post modernità en vogue, lavora per la decrescita infelice del Mezzogiorno e la vittoria dei populisti. La mente corre subito al braccio di ferro fra governo e istituzioni locali pugliesi in merito all’Ilva di Taranto. Uno scontro che termina con la rinuncia alla richiesta di sospensiva al Tar da parte della Regione, scongiurando lo spegnimento immediato dell’Ilva. Uno scontro che ci racconta molto di più della semplice decisione di dismettere o meno le ciminiere. Perché rivela, in realtà, il conflitto fra varie anime della sinistra.

È a partire dagli anni 70 che la sinistra operaista e industrialista, il cui perno ideologico ed elettorale era la grande fabbrica fordista, soffre la competizione della sinistra post-materialista, com’è stata definita dai sociologi Pippa Norris e Ronald Inglehart. La crisi della fabbrica e un nuovo elettorato progressista, fatto non più di colletti blu ma di impiegati benestanti e acculturati, ha portato al progressivo successo di una nuova sinistra, meno legata ai diritti economici e più interessata ai diritti di espressione del sé: ecologismo, identità liquide e performative, diritti civili. Le élites urbane e ricche hanno così riscoperto “la campagna”, attingendo a un immaginario neobucolico e ruralista, proprio di una classe agiata che non deve fare i conti con il principio di realtà, che si saldava a una certa tendenza anticapitalista propria del massimalismo comunista.

Insomma, basta con la modernità dello sviluppo capitalista, iniquo e - novità! - grigio e non compatibile con l’ambiente, si ritorni ad una epoca d’oro premoderna, con l’uomo in contatto con la natura. Un vero e proprio ritorno a un certo socialismo rurale ottocentesco, quando c’erano i luddisti ed esisteva la fascinazione per le gilde medievali e le confraternite preraffaellite. Questa sinistra ha barattato l’industria con la decrescita infelice. Al Sud, questo immaginario si è innestato sul “pensiero meridiano” di Franco Cassano o il terronismo di Pino Aprile, sull’idea che esisteva un ricco Mezzogiorno pre unitario e contadino, spazzato via dai Sabaudi imperialisti e capitalisti. In questa narrazione ideologica, la questione agraria del Sud è silenziata a favore di un’epopea contadina senza conflitti di classe, propri delle dinamiche urbane Lavoro Vs Capitale.

Secondo questa vulgata, il Mezzogiorno non avrebbe bisogno di grandi industrie inquinanti, ma di ritornare alla natura, perché i meridionali potrebbero vivere felici dei buoni prodotti che la loro terra produce. È in questa cornice, dunque, che si spiegano, non tanto le critiche ad una Ilva inquinante, ma l’opposizione ad ogni grande progetto industriale nel Mezzogiorno, la difesa degli ulivi del Salento dal “rapace” oleodotto Tap, l’istituzione di una giornata dedicata ai martiri del Risorgimento, cioè i briganti sanfedisti e filo borbonici che lottavano contro l’Unità d’Italia. Bene, questa immagine meridiana è assolutamente falsa. E, fra l’altro, fa gli interessi dei leghisti che non vogliono più spendere un euro per il Sud. E questo, al netto del dato che le industrie non debbano inquinare, che l’ambiente vada protetto e che i Savoia sterminarono brutalmente molti meridionali, all’epoca della Legge Pica. Il capitalismo e la modernità sono un progetto incompiuto, imperfetto e che va governato, ma non esistono modelli economici neorurali che possano, da soli, sfamare il Mezzogiorno.

La storia dell’Ilva di Bagnoli dovrebbe essere di ammonimento: Francesco Saverio Nitti volle le leggi speciali per Napoli, che portarono alla nascita dell’Ilva di Bagnoli, perché pensava che la Questione meridionale si risolvesse con il progresso; dalla chiusura dell’Ilva napoletana in poi, si è creata una disoccupazione non più assorbita, perché una grande città ha bisogno di industrie e non tutti possono vivere preparando mozzarelle e pizze, come l’oleografia meridiana suggerisce. L’Ilva, inoltre, era un argine alla malavita, perché la cultura operaia ha sempre osteggiato la camorra, che con la chiusura delle ciminiere è penetrata per la prima volta a Bagnoli. La Puglia, oggi, può aprirsi alla globalizzazione e ai mercati internazionali o chiudersi in una distopia autarchica che la zavorrerà definitivamente. Può aprirsi alla globalizzazione in modo vincente, grazie ad una posizione geostrategica che la rende testa di ponte verso l’Oriente; grazie al Tap che la collega all’Anatolia e alle sue infrastrutture portuali, che si trovano sulla nuova via della seta immaginata e finanziata dalla Cina; a patto, che si sostengano tali progetti industriali e si facciano l’alta velocità e l’alta capacità per i cargo.

Di fronte a questi progetti concreti e cantierabili, che creano ricchezza, lavoro qualificato per ingegneri e posti di lavoro, la vulgata neobucolica è No Tav, No Tap, No tutto, e immagina una Puglia di pittoreschi scugnizzi che vivano di olio e stracciatella, acquartierati in malsani trulli, ben diversi da quelli di lusso e gentrificati che utilizzano le élites postmoderne durante le loro vacanze in Salento. Ecco che questa Puglia rurale e neoborbonica rischia di essere una sciagura per tutti. Anche per la sinistra. La sinistra che ha smarrito la classe operaia, che non si riconquista chiudendo le fabbriche e proponendole l’apertura di BB, economia da piccoli proprietari immobiliari.

(da www.linchiesta.it)

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