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Il vuoto politico e la rassegnazione

di Ernesto Galli della Loggia

Sì e no il 50% del corpo elettorale si reca alle urne: non riesce a scorgere più nulla tra cui scegliere. Una secessione silenziosa del demos dal regime

Come in un rinnovato, fatidico, 8 settembre, le sciagure d’Italia si annunciano in Sicilia. E anche questa volta quella che si delinea è innanzi tutto la crisi di un partito che però tende a divenire insieme la crisi di un regime. Infatti, come il Partito nazionale fascista era l’ultimo, sia pur corrotto e pervertito legame con lo Stato risorgimentale, allo stesso modo il Pd è forse (o bisogna dire era?) l’ultimo legame tra il sistema politico italiano attuale, la sua ideologia e la sua costituzione materiale, e la Repubblica nata tra il 1946 e il ’48. Ma dopo il voto siciliano quel legame appare estremamente indebolito, quasi vicino a spezzarsi. E al pari di tanti anni fa — nell’ attesa di un incombente 25 luglio nei palazzi romani, forse con un ordine del giorno Franceschini al posto di quello Grandi — al pari di tanti anni fa l’Italia ha davanti a sé il vuoto. Il «baratro», ha detto ieri Romano Prodi, forse troppo silenzioso fino ad oggi per potersi concedere un così improvviso pessimismo.

È innanzi tutto il vuoto di legittimazione che sta inghiottendo il sistema politico, anche se il fatto che ormai sì e no il 50 per cento del corpo elettorale si rechi alle urne sembra meritare al più qualche nota marginale da parte dei commentatori o compassate osservazioni di sapore politologico. In realtà è la secessione silenziosa del demos dal regime che dovrebbe consacrarne il potere ultimo: regime nel quale molti indizi fanno pensare che esso, però, stenti sempre più a riconoscersi.

Per molta parte l’astensione italiana vuol dire il sottrarsi del corpo elettorale a una scelta in cui esso non riesce a scorgere più nulla tra cui scegliere.
Certo, dietro l’astensione ci sarà pure in molti casi il torpore, l’eco tuttora viva di un antico qualunquismo. Ma sempre più spesso sembra di percepire in essa un sentimento ben diverso: qualcosa che sempre più assomiglia a una rassegnata disperazione. O forse meglio una disperata rassegnazione. La rassegnazione al vuoto politico, alla mancanza di qualunque idea generale cui si cerca di supplire con le «parole forti», con la frase ad effetto, talora più semplicemente con l’ingiuria; la rassegnazione a un dibattito ridotto a scambio di battute nei 140 caratteri di un twitter, a una personalizzazione esasperata dove quella che di solito manca è proprio la personalità.

Ormai è questa patologia che in Italia ha acquistato l’apparenza della normalità. Ma solo perché essa viene quotidianamente accreditata dalla complice «comprensione» dei media e insieme trasfigurata dalla retorica dura a morire del discorso pubblico italiano, la retorica delle buone intenzioni «democratiche» nonché degli omaggi ai più alti principi e ai più bassi luoghi comuni. E poi perché si tratta di una patologia che a suo modo è lo specchio di analoghi fenomeni degenerativi presenti nelle istituzioni e nel corpo del Paese reale. Sembra esserci solo l’imbarazzo della scelta. Dal numero crescente di luoghi della Penisola divenuti terre di nessuno in mano alla delinquenza al degrado e alla violenza — oggi Foggia, Ostia e le mille periferie, per non dire delle solite Scampia o Casal di Principe, fino alla degenerazione incarnata per l’appunto da una classe politica come quella eletta domenica 5 novembre in Sicilia, descritta dal Corriere con questi termini: «Eredi, indagati, acchiappavoti». C’è davvero motivo di supporre, viene da chiedersi che in altre regioni le cose sarebbero o siano andate molto meglio?

Certo che in questo panorama normale ci sono delle eccezioni: ci mancherebbe altro! Ma esse non sembrano davvero riguardare la sfera politica. Chi sono, ad esempio, che qualità umana, culturale e politica oggi mediamente possiedono coloro che in Italia si dedicano alla politica potendo sperare di superare — questo è il punto decisivo — gli spietati meccanismi di cooptazione che determinano il successo e che sono stati appena ratificati da una sciagurata legge elettorale? Bisognerà pur farsela o no questa domanda una volta o l’altra? O dobbiamo invece essere condannati vita natural durante a chiederci che cosa farà domani Pisapia o quanto vale elettoralmente Alfano? Ed è ammesso farsela, la domanda di cui sopra, anche se si è convinti che immaginare di risolvere questi problemi con il richiamo stentoreo all’«onestà» o allo sdegno telematico dei «cittadini» sia solo una misera trovata demagogica?

Personalmente ne sono più che convinto, ma dovrà pur esserci una ragione se dalla Sicilia giunge la conferma del dato già emerso da tutti i sondaggi che il Movimento dei 5 Stelle è in termini di voti il primo partito: come da qui a quattro mesi potrebbe tra l’altro essere ratificato dalle elezioni nazionali.
Bene: c’è qualcuno anche tra i loro più caldi (ma ragionevoli) sostenitori che pensa che sia «normale» per un Paese non dico avere l’onorevole Di Maio presidente del Consiglio e magari l’onorevole Di Battista ministro degli Esteri, ma semplicemente vedere entrambi condurre delle trattative per la formazione di un qualche governo? Chi è capace di pensare a una tale eventualità senza, diciamo così, qualche sottile disagio? Ma ciò detto suscita forse minore disagio pensare che l’ alternativa potrebbe essere un bel ministero Renzi-Verdini-La Russa-Lupi? Non credo. Come si vede la micidiale tenaglia della «normalità» politica italiana non lascia scampo.

L’economia però va bene, si obietta in un supremo sforzo di ottimismo, il Pil aumenterà quest’anno di oltre l’uno e mezzo per cento. Il fatto è che l’economia non è tutto. L’economia può, ma anche non può, testimoniare del grado di tenuta civile di un Paese, della sua qualità complessiva. Forse quest’anno anche il Pil del Kazakistan o del Montenegro (sia detto con tutto il rispetto) faranno segnare una buona performance. Per la tenuta civile di un Paese serve la politica. Perché è solo nella politica, negli uomini e nelle donne che le prestano il proprio volto, che una società democratica trova la sua prima e più ovvia auto- rappresentazione. In tutto ciò che la politica è chiamata a fare, a decidere, a dirigere: che ai nostri giorni equivale direttamente o indirettamente a quasi tutto. Alla fine, insomma, la realtà e l’immagine dell’Italia sono la realtà e l’immagine della sua politica, c’è poco da fare. E sull’una come sull’altra bisogna ammettere che essere ottimisti non è tanto facile.

(dal Corriere della Sera)

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