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Le mine vaganti che ostacolano il rilancio dell’Europa

di Adriana Cerretelli

Volevano lanciare un messaggio di unità a Tallinn, offrire al mondo e ai propri scettici cittadini il senso di un impegno condiviso per costruire la nuova Europa dopo Brexit, dopo che a fine marzo 2019 si sarà compiuto il divorzio britannico.
Ci sono riusciti solo in parte. Intorno al tavolo c’era un convitato di pietra. Anzi due.
Il primo: la Catalogna indipendentista, il referendum ad altissima tensione che si terrà domani a Barcellona, la paura scontri di piazza, il timore che la situazione sfugga di mano, l’unità della Spagna in bilico. Di qui la pesante assenza dal vertice del suo primo ministro, Mariano Rajoy. L’Europa tace ma segue gli eventi con il fiato sospeso di fronte agli opposti estremismi che si fronteggiano.
Mentre già uno dei suoi Grandi, il Regno Unito, si prepara a uscire, di tutto avrebbe bisogno oggi l’Unione fuorché della bomba catalana: la Spagna, un altro Big, a rischio di piombare in un clima di instabilità e deflagrazione interna, costretta al duello con il separatismo, l’effetto domino che potrebbe riversarsi nel resto d’Europa, dove altri regionalismi covano sotto le ceneri, pronti a rialzare la testa alla prima buona occasione. Magari proprio in nome dell’Europa che molti considerano il porto sicuro in cui annegare le presunte obsolete realtà degli Stati nazionali.

A Tallinn il secondo convitato di pietra è stato il futuro Governo tedesco, il Merkel IV che non vedrà la luce prima di dicembre, non si sa ancora con chi e per fare cosa. Quindi mina vagante che tiene in ostaggio il futuro collettivo, anche se non la sua direzione di marcia. Europea.
Per questo il cancelliere ha spezzato, forte e chiaro, la sua lancia a favore del piano di rilancio della Francia di Emmanuel Macron tacendo invece sul parallelo e altrettanto articolato piano di Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione Ue. Modello di integrazione selettiva e multi-speed da un lato, dall’altro il suo opposto, unitario e un po’ federalista. Intergovernativo il primo, comunitario il secondo che però suona ormai fuori tempo massimo.

Dopo aver lodato un discorso «visionario» e l’«intensa» cooperazione con la Francia, Angela Merkel ha parlato di «alto livello di accordo» sul piano Macron ma, ha aggiunto, «dobbiamo ancora discuterne i dettagli». In breve, niente assegni in bianco all’amico francese, che avverte: meglio partire dai migranti rinviando la riforma dell’eurozona, il contrario e un freno evidente agli auspici di Parigi.
Quei dettagli mancanti sono fondamentali: possono fare o disfare la fisionomia della nuova Europa. Per ora dicono di un viaggio in terra incognita, senza una meta condivisa.

L’ambiguità di Merkel è obbligata: ancora non sa quale sarà la sua futura coalizione ma sa che il rafforzamento o meno dell’eurozona, come le altre euro-riforme, difesa compresa, saranno oggetto del prossimo accordo di Governo. Probabilmente con liberali e verdi, due partiti con vedute contrastanti sull’Europa e che per questo potranno restringere i margini di manovra del cancelliere. La macchina dell’Unione va rafforzata perché inefficiente, poco dinamica e tempestiva, inadeguata ai tempi globali che impongono decisioni rapide. Ma come, con chi e a che prezzo politico? Il piano Macron suscita riserve a Nord, in Olanda, Finlandia e in genere tra gli scandinavi, e grandi diffidenze a Est. Come evitare una cascata di exit, magari anche pilotati? Che cosa dare in cambio ai Paesi marginalizzati? E l’Europa-spezzatino può davvero salvaguardare la tenuta del mercato unico? È fattibile l’armonizzazione fiscale a colpi di voti a maggioranza e integrazioni selettive, come vogliono Francia, Germania e Italia, mantenendo la coesione dell’euro, visto l’irriducibile rifiuto dell’Irlanda, che non è sola?

«Gli orizzonti europei sono disegnati. L’importante sarà evitare i miraggi del deserto strada facendo», ha commentato tagliente Dalia Grybauskaite, il presidente lituano. Il mercato digitale europeo da completare entro fine 2018, le profonde divisioni sulla web tax emerse anche ieri sono solo un assaggio delle feroci battaglie future. Però, a un anno da Bratislava, il vertice di Tallinn ne ha confermato l’agenda rafforzandola. Molte incertezze restano ma per ora la volontà politica dei Grandi non recede.

Ripresa economica e disoccupati in calo aiutano, come la Francia di Macron rientrata in pista con decisione. Conclusa la pausa post-elettorale, anche Merkel, alleati interni permettendo, tornerà alla carica perché convinta che un’Europa forte non sia una scelta ma una necessità assoluta. Che cosa produrranno in concreto i nuovi fermenti europeisti, più vivaci a Ovest che a Est, più convinti tra i grandi che tra i Paesi medio-piccoli, sarà tutto da verificare.
C’è sempre il rischio che la montagna delle grandi riforme annunciate produca il solito topolino europeo. Mezze misure e mezze decisioni però sono ormai un lusso insostenibile nell’Europa catapultata nel mondo globale.

(dal Sole 24 Ore - 30 settembre 2017)

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