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Ue, necessità irrinunciabile e futuro da reinventare

di Adriana Cerretelli

Dovrebbe cambiarle faccia e vita questo 60° compleanno che sorprende l’Europa nel mezzo di un guado insidioso. Dovrebbe, per restituirle fiducia in se stessa e futuro.

Questo si propone la dichiarazione di Roma che sarà firmata domani dai capi di Stato e di Governo dei 27. Anche se lo fa con estrema cautela, per non rompere la fragile unità di una famiglia in crisi: già si prepara a perdere un grande Paese come la Gran Bretagna, già perde consenso tra la sua gente, almeno vuole evitare altri scismi e diserzioni.

Sessant’anni dopo la nascita, l’Europa resta una necessità irrinunciabile, un imperativo esistenziale: senza, sarebbe impossibile nel mondo globale difenderne civiltà, valori e modello di società e di sviluppo. Già oggi è un’estrema fatica. Se non ci fosse e non costituisse un patrimonio grande e prezioso, bisognerebbe comunque inventarla.
Eppure non piace né convince più l’opinione pubblica ed è vissuta con diffidente insofferenza, per ragioni diverse, da molti dei suoi Governi che pure sanno che distruggerla costerebbe un prezzo altissimo, proibitivo. Alla prova dei negoziati, Brexit ne darà dimostrazione concreta.

L’Europa ha garantito pace e benessere per oltre mezzo secolo. Con euro e mercato unico ha distribuito stabilità economica e monetaria a imprese e cittadini, libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali, mini-tassi di interesse, mutui accessibili, voli low cost e tariffe ridotte dalla fine dei monopoli. E si potrebbe continuare.
Eppure il progetto è al punto di saturazione. Di crisi in crisi, eurozona, banche, migranti, terrorismo, instabilità alle frontiere, si è imbizzarrito: percepito come troppo invadente e ostile, accusato di carente legittimità democratica e di burocratismo parossistico è finito nel pantano dell’ingovernabilità e del ribellismo diffuso. Non sarà facile rimetterlo in marcia, restituirgli consenso popolare, efficienza interna e credibilità internazionale.

Vista l’irrisolta frattura di sempre tra chi ritiene risolutivo il passo verso l’unione politica e chi invece non intende andare oltre la cooperazione intergovernativa articolata sul collante del mercato, è risorta l’idea dell’Europa a più velocità, con possibile nucleo duro costruito intorno all’eurozona. Sponsorizzata da Germania, Francia, Italia e Spagna, il quartetto dei Grandi ansiosi di uscire dall’impasse.
La levata di scudi di tutti gli altri è seguita immediata e scontata, con il blocco dell’Est mobilitato contro nel timore di emarginazione, perdita di aiuti e nuove cessioni di sovranità in un’Unione trasformata nel campionato di serie A e B. Le critiche non sono mancate nemmeno dagli scandinavi. Al vertice di Bruxelles di due settimane fa è esploso il dissenso, con rapida retromarcia.
Nessuno vuole compromettere la precaria unità dei 27, che già sarà messa a dura prova dai negoziati di Brexit che inizieranno a fine marzo. Quindi la dichiarazione di Roma non preconizza cambiamenti radicali, si ferma alla codificazione del quadro giuridico esistente.
Integrazioni a più velocità sì, come è già successo con euro e Schengen e diritto di famiglia, e forse presto anche con la tassa sulle transazioni finanziarie e la procura europea, ma ricorrendo alle cooperazioni rafforzate per consentire ad avanguardie di Paesi di accelerare in alcuni settori (sicurezza e difesa, politica migratoria, sociale, armonizzazione fiscale, etc.) lasciando sempre la porta aperta a chi voglia aggiungersi in seguito. Salvaguardando così l’unità, almeno formale, di progetto e istituzioni comuni. E senza riformare gli attuali Trattati.

Nella sostanza, quindi, niente di nuovo. Il che non equivale a una precipitosa ritirata ma alla volontà di avanzare nel segno del realismo costruttivo. Senza strappi né voli pindarici.
Sulla sterzata continuista del Quartetto ha giocato di sicuro la fronda orientale ma anche la lucida consapevolezza che la coesione degli spiriti, degli interessi e delle ambizioni oggi latita ovunque nell’Unione, compreso nel nucleo duro dell’euro e della vecchia Europa.
Allora meglio non scavare troppo sotto la crosta dell’unità di facciata e aspettare tempi migliori: la fine della lunga stagione elettorale in Francia e Germania per cominciare. Probabilmente anche la conclusione nel marzo 2019 dei negoziati sul divorzio britannico: la cartina di tornasole per verificare la reale compattezza del club.

L’Europa avrebbe un bisogno urgente di voltare pagina, darsi un colpo di reni e riprogettarsi secondo una strategia di lungo termine come fa la Cina, semplificando struttura e processi decisionali, perseguendo un’integrazione molto più coerente, organica ed efficace dell’attuale. Ma le complessità culturali, le divergenze di sensibilità, di interessi e di ambizioni sono fatte apposta per resuscitare nazionalismi ed egoismi in tempi di crisi, e remare contro il superiore interesse comune, chiarezza, trasparenza e tempestività delle decisioni. Per questo la dichiarazione di Roma non è esaltante né rivoluzionaria, non è la svolta a misura dei problemi europei da risolvere che sarebbe necessaria. Ma se servirà a rimettere a poco a poco in circolo la perduta fiducia intra-europea aprendo davvero nuovi cantieri di integrazione, non sarà stata un esercizio inutile ma la prima pietra della nuova Europa.

Il percorso dell'Europa

In 60 anni, la Ue è passata da 6 a 28 membri, raggiungendo330 milioni di abitanti e aumentando di più di 7 volte il Pil

Chi è stato sui banchi della scuola elementare a cavallo degli anni ’50 e ’60 del secolo scorso ha sentito parlare del “Mercato comune” e della “Piccola Europa”, perché c’era una paginetta con la cartina sul sussidiario. Il 25 marzo 1957, giorno della firma a Roma dei Trattati istitutivi della Cee e dell’Euratom, le scuole sono rimaste chiuse e la cerimonia è stata ripresa in eurovisione nei sei Paesi della nuova Comunità (Italia, Francia, Germania Ovest, Belgio, Olanda e Lussemburgo). Alla vigilia della celebrazione a Roma per i sessant’anni dell’evento, sul filo della memoria, negli scolari di allora resta la sensazione di aver vissuto, seppure da spettatori inconsapevoli, l’alba dell’Europa.

In Italia nel 1957 gli abbonamenti alla televisione erano poco meno di 700mila. Acquistare un apparecchio tv costava dalle 200 alle 250mila lire (100-130 euro), più del doppio di un frigorifero: un prezzo decisamente elevato, visto che il salario mensile di un operaio era di 40-45 mila lire (meno di 25 euro) e lo stipendio di un impiegato era più alto, ma di  solito restava al di sotto delle 100mila lire (da 30 a 50 euro). Il nostro reddito pro capite annuo all’epoca era il più basso fra i sei Paesi (in testa risultava la Francia).

Vacanza a scuola e l’eurovisione

Presumibilmente quel lunedì 25 marzo, alle ore 18, gli italiani non hanno affollato i bar per assistere all’evento diplomatico a Roma, come invece avveniva il giovedì sera per “Lascia o raddoppia?”, il telequiz condotto da Mike Bongiorno e, dal mese di dicembre, anche il sabato sera per il “Musichiere”, spettacolino di indovinelli musicali presentato da Mario Riva. Poche settimane prima, il 3 febbraio, aveva esordito sul Programma Nazionale “Carosello”, appuntamento televisivo di sketch pubblicitari che per vent’anni avrebbe scandito i ritmi quotidiani delle famiglie italiane.

La primavera romana non aveva riservato la migliore accoglienza agli illustri ospiti: è stata infatti una giornata di vento e pioggia, con scrosci brevi e intermittenti e anche un acquazzone nel pomeriggio. Il protocollo italiano aveva predisposto la solenne cerimonia nella sala degli Orazi e Curiazi in Campidoglio, non senza qualche apprensione, perché all’ultimo momento il cancelliere tedesco Konrad Adenauer aveva deciso di partecipare personalmente, lo stesso ha quindi fatto il presidente del Consiglio italiano Antonio Segni, ma non i capi di governo francese, belga e olandese, che hanno delegato i loro ministri degli Esteri, mentre per il Lussemburgo c’era il primo ministro Joseph Bech.

Quasi tutti gli oratori hanno ricordato l’azione di Alcide De Gasperi per gettare le basi della nuova Europa e il ministro degli Esteri italiano Gaetano Martino – cui si doveva buona parte del successo della conferenza preparatoria di Messina nel giugno 1955, dopo il fallimento della Comunità europea di difesa ( Ced ) nel 1954 – ha sottolineato che con i Trattati di Roma è avvenuto «l’inserimento della patria italiana nella più grande patria europea». Dai dispacci Ansa apprendiamo che durante la cerimonia si udivano i rintocchi della “patarina”, la storica campana del Campidoglio; ancora l’Ansa ci informa che i giornalisti accreditati erano duecento.

La curiosità delle firme sul Trattato inesistente

Un dettaglio poco noto è quello descritto dall’ambasciatore Silvio Fagiolo per il sito del «Sole 24 Ore», in occasione del cinquantenario dei Trattati, celebrati a Berlino il 24 e 25 marzo 2007, perché la ricorrenza cadeva nel semestre di presidenza tedesca e la cancelliera Angela Merkel volle ospitare i leader europei nella capitale riunificata della Germania. Ambasciatore d’Italia a Berlino dal 2001 al 2005, dove ha concluso la carriera, Fagiolo è mancato d’improvviso nel giugno 2011, poco prima di compiere 73 anni.
Racconta dunque l’ambasciatore che per la firma dei Trattati a Roma «i tedeschi avevano chiesto, quasi a ridosso della cerimonia, che i documenti facessero fede anche nella loro lingua e non solo in quella nella quale erano stati negoziati, il francese. Ma non c’era più tempo per le traduzioni, che avrebbero dovuto essere allora anche in italiano e olandese, né per la stampa dei volumi. Si decise dunque di tradurre solo la prima e l’ultima pagina, dove i plenipotenziari avrebbero apposto le firme su un testo in realtà inesistente. Solo pochissimi erano al corrente del ripiego e nessuno se ne sarebbe accorto». E così avvenne.

«Boom» dell’economia e piccolo cabotaggio in politica

L’indomani mattina 26 marzo, «Il Corriere della Sera», il più importante quotidiano italiano, in un articolo di taglio medio sotto l’apertura, azzarda un titolo decisamente ottimista: «Il primo governo provvisorio della Piccola Europa istituito a Roma». Nell’editoriale, a firma di Libero Lenti (docente di statistica e di economia politica all’università di Pavia e, all’epoca, anche presidente della Banca popolare di Milano), si legge che i Trattati di Roma sono «un punto di partenza, e non d’arrivo, nel processo d’integrazione economica dei sei Paesi (…) che si trovano con situazioni strutturali e congiunturali assai diverse». Ma in Italia, prosegue Lenti, «ponendo l’accento sulla preminenza degli uomini sui mezzi, abbiamo dovizia di lavoratori e d’imprenditori per guardare con ragionevole fiducia all’avvenire economico del nostro Paese nell’ambito del Mercato comune». Una chiara scelta di campo, dunque, rivolta ai non pochi imprenditori, abituati dal fascismo alle tariffe doganali protettive, fra i quali era diffuso il timore che l’apertura delle frontiere commerciali, seppure in modo graduale, avrebbe messo in ginocchio la nostra economia. In effetti l’industria italiana resse bene alla prova della concorrenza europea. Anzi, ci fu il “boom” economico.

Passata la festa, scrive Indro Montanelli in uno dei suoi volumi sulla storia d’Italia, la politica italiana tornò presto al piccolo cabotaggio. Già al momento della firma dei Trattati di Roma il governo Segni era in stato di pre-crisi, perché a fine febbraio il Partito repubblicano aveva lasciato la maggioranza, formata da democristiani, socialdemocratici e liberali. Motivo di scontro «un progetto di legge sui patti agrari, che per sinistra Dc, repubblicani e socialdemocratici aumentava il numero delle “giuste cause” che consentivano lo sfratto degli affittuari o dei mezzadri». Dopo un paio di mesi di logoramento, con sporadici sostegni al governo di missini e monarchici, Segni diede le dimissioni al presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Seguirà un monocolore Dc guidato da Adone Zoli, fino alle elezioni del maggio 1958.
Sempre Montanelli ci ricorda però l’atteggiamento favorevole al Mercato comune europeo manifestato da Pietro Nenni al Congresso del Psi che si era svolto a Venezia dal 6 al 10 febbraio 1957. Pochi mesi prima, a Budapest, i carri armati sovietici avevano represso nel sangue la rivolta dei patrioti ungheresi e «i socialisti salpavano lentamente le ancore dalle acque comuniste, riaprendo prospettive di unificazione (…) con i socialdemocratici di Giuseppe Saragat». Fra l’altro, il patriarca di Venezia cardinale Angelo Giuseppe Roncalli (futuro papa Giovanni XXIII), inviò un messaggio di saluto per l’apertura del Congresso socialista, «che parve (regnando Pio XII) sorprendente e quasi spregiudicato».

Dalla dichiarazione Schuman alla Brexit, successi e delusioni del progetto europeo

La ricorrenza dei 60 anni dei Trattati ha un sapore dolceamaro: l’euroscetticismo pervade non pochi elettori, sia nei sei Paesi fondatori che negli Stati dell’ex blocco socialista: la Gran Bretagna avvierà l’iter per l’uscita dalla Ue il 29 marzo, quattro giorni dopo l’appuntamento di Roma. L’approdo federalista si allontana sempre di più. Ma non dovremmo dimenticare che l’idea d’Europa - nel dopoguerra – nasce con la dichiarazione Schuman, il ministro degli Esteri francese che il 9 maggio 1950 propose, in un celebre discorso a Parigi, il superamento del contrasto secolare tra Francia e Germania e l’avvio dell’integrazione economica e, in prospettiva, anche politica tra i vari Stati europei.

(dal Sole 24 Ore - 24 marzo 2017)

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