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Breve commento introduttivo

Credo che ormai non possa sfuggire a nessuno che dietro il no al referendum si cela qualcosa di ben altro, rispetto al merito dell'articolato della riforma. La battaglia per il no è sostanzialmente quella di un pezzo di classe dirigente ancorata nel passato, se pur profondamente eterogenea, che non sa rassegnarsi al tramonto della propria stagione. Un coacerbo di posizioni che, cercando di bloccare qualsiasi processo di rinnovamento del Paese, aspira a ripristinare quell'intreccio fra consociativismi, poteri di interdizione, poteri allargati, insomma ciò che in negativo ha connotato l'esperienza della cosiddetta Prima Repubblica.
La battaglia referendaria non è quindi solo una nuova tappa del conflitto mai sopito fra la sinistra massimalista e quella riformista; è il tentativo disperato di un personale politico e di interessi corporativi di difendere un assetto nel quale poter continuare a giocare il proprio ruolo, e poco importa se ciò avviene a scapito dei bisogni veri del Paese.
E' da auspicare che gli italiani capiscano, e che non premino la nostalgia del passato, ma l'urgenza del futuro. Un futuro di cui la riforma certo non può essere foriera di poteri taumaturgici, ma sicuramente costituisce una condizione necessaria.

Paolo Razzuoli

Referendum, la doppia battaglia

di Ernesto Galli della Loggia

Il 4 dicembre, data del referendum sulla revisione della Costituzione, si combatteranno due battaglie. Innanzi tutto la battaglia forse ultima e decisiva di una delle tante, interminabili guerre civili italiane: la guerra civile iniziata tanto tempo fa all’interno della Sinistra italiana tra riformisti e massimalisti. Guerra riaccesasi poi negli anni Sessanta del Novecento, con l’ingresso dei socialisti nel centrosinistra, da lì proseguita in tutti i decenni seguenti tra Psi e Partito comunista in modo più o meno sotterraneo o virulento (vedi gli anni di Craxi), e poi ancora ai nostri giorni all’interno del Partito democratico. Si combatterà tuttavia anche una seconda battaglia. Una battaglia dagli schieramenti assai più frastagliati che accanto alla sinistra massimalista vede non solo la presenza consistente, e apparentemente inspiegabile, di una parte del mondo cattolico insieme ad altri settori significativi del vecchio personale politico della Prima Repubblica. Ma come si spiegano queste due battaglie sovrapposte e la bizzarra alleanza ora detta? Si spiegano con il fatto che in realtà non è una, ma sono due le poste in gioco del referendum: intrecciate tra loro ma in certo senso nascoste una nell’altra. La posta più evidente — oggi come tanti anni fa, all’epoca della «grande riforma» ventilata dal Partito socialista craxiano — è una riforma della Costituzione che nell’opinione dei suoi sostenitori si prefigge una maggiore governabilità del Paese.

Una governabilità che implica l’eliminazione di almeno alcuni degli elementi che provocano l’impasse ricorrente del nostro sistema politico, cioè la sua «normale» incapacità di funzionare normalmente. Ma, come dicevo, questo aspetto del referendum ne sottintende un altro, mi pare, la cui importanza, paradossalmente, è sottolineata proprio dal silenzio che fin qui l’ha avvolto. Con il promuovere una revisione della Costituzione in chiave funzionalista (e con l’aggiungervi magari una legge elettorale ad hoc), si tratta infatti di mettere fuori gioco una volta per tutte l’uso ideologico-politico che della stessa Costituzione si è finora fatto e si vorrebbe continuare a fare. Ed è da qui che trae origine la confluenza nel partito del No della posizione della sinistra massimalista da un lato, e dall’altro di quella di altri di estrazione affatto diversa, ex democristiani e no, aventi tutti però le proprie radici nella Prima Repubblica. Per capire il motivo di una tale confluenza bisogna ricordare che a partire dall’entrata in vigore della Carta costituzionale il suo uso è stato duplice, con due protagonisti assai diversi a seconda che l’uso ora detto riguardasse la prima o la seconda parte della Carta stessa.

La seconda parte — quella riguardante gli organi di governo e di garanzia — con il suo esasperato parlamentarismo, con la divisione di fatto del potere esecutivo reale tra il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio (espressione in genere di maggioranze diverse), con l’autonomia piena dei ministri (che vuol dire dei loro gabinetti), con una magistratura inquirente libera di gestire l’azione penale a sua discrezione e in regime di virtuale irresponsabilità nonché con la magistratura padrona delle proprie carriere — la seconda parte della Costituzione, dicevo, ha rappresentato finora un dispositivo formidabile capace di tenere insieme tutti i pezzi importanti della classe dirigente mantenendo al vertice i partiti e favorendo la loro massima libertà di movimento. A questo sono serviti di fatto la precarietà di ogni equilibrio, il mutare e il sommarsi delle ambizioni e delle combinazioni, i colpi di mano, la trasversalità delle influenze, i necessari consociativismi, ma anche la diffusione massima del potere, fosse pure quello d’interdizione: vale a dire tutti gli ingredienti che erano insiti nella seconda parte di cui dicevo sopra e che hanno caratterizzato la vita politica e pubblica del Paese. Storicamente, insomma, l’Italia della partitocrazia, del suo governo allargato e della sua classe politica, hanno avuto nella seconda parte della Costituzione il loro autentico statuto fondativo e la loro massima garanzia.

C’era poi la Costituzione della prima parte, in particolare quella degli articoli 29-47 riguardanti i «rapporti etico-sociali» e i «rapporti economici». Articoli che grazie alla loro ispirazione ipergarantista ma insieme statal-solidale dai toni simil-socialisti, hanno fino a oggi rappresentato, nelle circostanze più varie, la facile giustificazione per la cultura del radicalismo antiriformista a valenza estremistica che ha dominato tanti aspetti della nostra società. Quella cultura, per intenderci, nata nelle viscere dell’antico ribellismo italiano, poi nel Dopoguerra cresciuta e alimentata nell’ambito della Sinistra comunista per trasferirsi negli ultimi tempi specialmente nei Cinque Stelle o in un vasto sentire diffuso di senza partito. È la cultura che nel corso del tempo si è presentata di volta in volta come la cultura del no alla «legge truffa» e a favore della retribuzione variabile indipendente, del «via le basi della Nato dall’Italia» e della negazione dell’esistenza del terrorismo rosso, la cultura del «benaltrismo» continuo di fronte a ogni riforma che non fosse «di struttura», della difesa dei diritti acquisiti in materia di pensioni, della contestazione alle centrali atomiche per l’elettricità così come oggi dice no alla Tav, reclama il «salario sociale», la «pace» senza se e senza ma, l’utero in affitto, e naturalmente si sgola contro i «politici tutti ladri». Sempre, invariabilmente, in nome di qualche articolo della Carta costituzionale.

È questo duplice uso storico della nostra Costituzione di cui ho detto — prettamente politico da parte dei partiti e del suo personale, e viceversa esplicitamente ideologico da parte della Sinistra antiriformista in servizio permanente effettivo — che spiega il fronte bizzarramente composito — da Gasparri a Rodotà a Vendola, passando per Cirino Pomicino — che oggi si oppone al progetto di revisione costituzionale. Ognuno difende la «sua» Costituzione, quella che gli è servita e che vorrebbe gli servisse ancora. Che essa possa anche servire al futuro del Paese nel suo complesso, su questo, invece, è forse doveroso nutrire più di un dubbio.

(dal Corriere della Sera - 4 novembre 2016

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