logo Fucinaidee

Commento introduttivo

HO ripetutamente scritto e ripeto nelle occasioni pubbliche di dibattito, che il prossimo referendum sulla riforma costituzionale rappresenta - per il nostro Paese - un momento fondamentale per consentirgli di rincamminarsi su un binario di sviluppo e di crescita. Affermazione che può sembrare un po' retorica e catastrofistica: penso invece che non sia così, in considerazione delle conseguenze dell'eventuale vittoria del "no", tanto sul versante interno quanto su quello internazionale.

Sul versante interno, è sin troppo facile dire che la vittoria del "no" aprirà una nuova fase di instabilità politica che, è sin troppo facile capirlo, bloccherà qualsiasi tentativo di riformare in profondità il Paese. Tutto questo in barba a quanto ormai da anni ci viene chiesto da tutti coloro che sono in grado di approcciarsi in modo scientifico e razionale alla situazione italiana.
La frammentazione politica, un bicameralismo paritario in cui, come si è ampiamente visto, è quasi impossibile trovare maggioranze omogenee, una abnorme ripartizione di competenze fra governo centrale e regioni, sono solo i dati più evidenti di un contesto in cui il consolidato potere di interdizione di una infinita compagine di corpi sociali potrà agevolmente giocare la propria partita in favore del peggiore conservatorismo, ancorchè ammantato da un ingannevole riformismo di facciata.

Ma non meno deleteri saranno gli effetti della vittoria del "no" sul versante internazionale.
Se vince il No il segnale al resto del mondo, e ai mercati in particolare, sarà inequivocabile: l’Italia è irriformabile, non potrà mai guarire, non potrà mai liberarsi della sua cronica instabilità politica; è un Paese dal quale conviene stare alla larga.
Ce lo ha ricordato qualche giorno fa l'ambasciatore Usa a Roma, che peraltro ha detto una verità che sa chiunque abbia un minimo di capacità di conoscere ciò che si dice al di fuori dei nostri confini. Molto banalmente, per rendersene conto, è sufficiente parlarne con qualche turista che visita le nostre belle città: nella mia città, Lucca, fortunatamente ce ne sono molti, e in varie occasioni ho avuto modo di farlo.

In un mondo ormai interamente interconnesso è inimmaginabile pensare che gli altri non ci guardino. Troppo spesso ce le suoniamo e ce le cantiamo da soli, stracciandoci poi le vesti se gli altri ci prendono sul serio.

Il contributo di Angelo Panebianco che propongo ai lettori di Fucinaidee mi pare offra alcuni buoni spunti di riflessione.

Paolo Razzuoli

L’autarchia non è una virtù

di Angelo Panebianco

Che cosa ha dato davvero fastidio a coloro che hanno contestato la «inammissibile ingerenza» (sic), le dichiarazioni dell’ambasciatore statunitense John Phillips sul nostro prossimo referendum costituzionale? Appare chiaro che ciò che ha più infastidito i protestatari erano le verità contenute in quel discorso.
Se vince il No, ha detto l’ambasciatore, il segnale al resto del mondo, e ai mercati in particolare, sarà inequivocabile: l’Italia è irriformabile, non potrà mai guarire, non potrà mai liberarsi della sua cronica instabilità politica; è un Paese dal quale conviene stare alla larga. Ciò che ha detto l’ambasciatore, naturalmente, è ciò che pensano quelli che contano, ovunque, in Europa come negli Stati Uniti. Ma i protestatari fingono di non saperlo. È bastato poi che a sostegno del discorso di Phillips arrivasse la convergente valutazione dell’agenzia di rating Fitch, perché venisse subito denunciata, dai suddetti protestatari, la congiura dei «poteri forti».

Perché dunque l’ovvietà (gli altri ci guardano, ci prendono le misure, e reagiscono alle nostre azioni) è così fastidiosa per tanti? Al di là delle polemiche contingenti, c’è un grumo opaco nella cultura politica nazionale, frutto di un mix di provincialismo e di superficialità. Possiamo definirlo «mentalità autarchica». La mentalità autarchica si manifesta in tre diverse maniere. In primo luogo, con una sorta di totale noncuranza per gli effetti delle nostre parole e dei nostri atti sul resto del mondo. Chi è afflitto da mentalità autarchica sembra pensare — nonostante tutto ciò che ci circonda, nonostante il web, persino — che una barriera invisibile impedisca a ciò che diciamo e facciamo di rimbalzare fuori dai confini nazionali e di influenzare così i giudizi degli altri su di noi (e le loro conseguenti azioni). Se una agenzia di rating gli ricorda che le cose non stanno affatto così, egli va su tutte le furie.
Il secondo modo in cui si manifesta la mentalità autarchica consiste nel credere che dei legami con il resto del mondo ci si possa sbarazzare facilmente, e senza pagare alcun prezzo. Da qui proclami del tipo «usciamo dall’euro», innalziamo barriere protezioniste, eccetera. Non c’è nulla di nuovo o di originale, da questo punto di vista, nel Movimento Cinque Stelle: come fanno sempre tutti i movimenti estremisti, esso si limita ad esasperare tendenze (propensioni autarchiche) già presenti e radicate nel Paese.
Il terzo e ultimo modo riguarda l’indisponibilità di tanti a guardare con un minimo di serietà, di attenzione e di rigore a ciò che accade nel resto del mondo: una forma di pigrizia e di provincialismo che viene gabellata per attaccamento alle nostre «specificità» culturali. Ad esempio, non c’è nulla di male se un artista, un comico, si inventa una fola sulla «Costituzione più bella del mondo».
Ma c’è invece qualcosa di patologico, di viziato, di malato, se altri — che non fanno gli artisti di mestiere — ripetono un simile insulso slogan. Se non avesse fatto loro velo la mentalità autarchica, avrebbero potuto leggersi qualche altra costituzione democratica. Avrebbero così scoperto cose interessanti. Per esempio, che il bicameralismo paritetico non serve affatto al cosiddetto «equilibrio dei poteri». Serve solo a garantire la debolezza, la ricattabilità e l’instabilità dei governi.

Sempre a proposito di propensioni autarchiche, pensate a quelli che si sono inventati «Mafia Capitale», che hanno cioè proclamato urbi et orbi, hanno gridato di fronte al mondo, che Roma è mafia. La mentalità autarchica non ha permesso loro di capire che dichiarare la Capitale del Paese città mafiosa significava dire al mondo — al mondo intero — che tutti noi (ivi compresi quelli che usano l’espressione Mafia Capitale) siamo una congrega di mafiosi. Potrebbero poi apparire ridicole — ma sono solo penose — le reazioni scandalizzate quando Charlie Hebdo o il dittatore turco Erdogan assimilano Italia e mafia. Essi si limitano ad usare gli argomenti che noi abbiamo fabbricato (e diffuso in giro per il mondo) allo scopo di colpire noi stessi. Gli autarchici si rassegnino. Non c’è nessuno scudo spaziale a proteggerci o, se c’era, è disattivato da decenni. Non si scappa: gli altri ci vedono, ci ascoltano, ci giudicano e, quando facciamo i furbi, ci colpiscono.

(dal Corriere della Sera)

Torna all'indice dei documenti
Torna alla prima pagina