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Commento introduttivo

IL 24 gennaio 2014 Fucinaidee ha proposto ai suoi lettori una intervista di Andrea Cangini a Claudio Velardi, ex Consigliere di Massimo D'Alema quando era a Palazzo Chigi.
IL pezzo fu profeticamente intitolato «LA MAGISTRATURA NON CEDE POTERE" Le riforme? Attenti alle toghe «È già partita la caccia a Matteo"

Ebbene, la profezia inizia ad avverarsi: non trovo altra chiave di lettura nella nomina di Davigo alla presidenza del sindacato delle Toghe, e nella impropria sortita di ieri, prima sul Corriere, quindi reiterata in un seminario all'Università di Pisa.A nulla possono servire le rettifiche ex post: in quei ruoli nulla viene detto per caso.

Se le valutazioni espresse da Velardi nel 2014 fossero uscite dalla penna o dalla bocca di Berlusconi, si sarebbero liquidate come il solito mantra berlusconiano contro i giudici. Velardi pero' non puo' essere certo accusato di questa "macchia".
Evidentemente c'e' dell'altro.

Ad una domanda dell'intervistatore, Velardi esordisce: «Occhio, Renzi, il sistema non si lascerà cambiare senza aver combattuto e come al solito si servirà della magistratura per fare a pezzi il riformatore che più lo minaccia. Cioè te».

Alla richiesta di chiarire, Velardi prosegue: - «Parto da un presupposto noto: l'Italia è un paese consociativo, dove gli interessi sono intimamente intrecciati e basta tirare un filo che si disfa l'intera matassa". «Io dico che da vent'anni non si muove nulla perché ogni volta che qualcuno si azzarda a toccare questo o quell'interesse, chi si sente minacciato trova regolarmente nella magistratura il proprio più efficace difensore".

Alla domanda se la magistratura si muove a comando, Velardi risponde: «No, negli ultimi vent'anni la magistratura si è abituata a primeggiare sulla politica e non intende rinunciare al proprio primato".

Alla domanda se Renzi costituisca una minaccia, Velardi risponde: «Esatto: minaccia gli interessi costituiti perché vuole, e lo vuole davvero, 'cambiare il Paese'. E in più è un politico forte e per i magistrati l'idea che la politica possa riacquistare la forza perduta è insopportabile".

Ebbene Renzi, obbiettivamente, è riuscito a portare a casa un pacchetto di riforme che nessuno avrebbe ritenuto possibile in questa legislatura. Per chi nulla vuol cambiare, è arrivato il momento di sfoderare tutte le armi.

La battaglia per vincere il referendum di ottobre non sarà semplice, ma dovra' essere combattuta senza risparmiarsi. In questo Paese la resistenza al cambiamento è più forte di quanto non si pensi. Se poi si aggiunge che chi ha capacita' di orientare l'opinione pubblica spesso si muove per propri fini politici, indipendenti dall'oggetto della contesa, il quadro si fa ancor piu' ingarbugliato.
Nello specifico, si fara' di tutto per spostare il baricentro della consultazione sul presidente del Consiglio, trasformandolo in una "crociata" pro o contro Renzi. E' quanto di piu' sbagliato si possa immaginare. La posta in gioco e' un'altra: e' quella di un processo di modernizzazione dell'assetto istituzionale, utile a qualsiasi protagonista dello scenario politico.
Una riforma necessaria per rimettere il Paese in grado di recuperare la competitivita' necessaria per stare al passo con i tempi.
Certo, da sola la riforma istituzionale non e' sufficiente: e' pero' un presupposto indispensabile.
Sono convinto che il Paese vivo, quello che attraverso l'impresa crea ricchezza, quello che ogni giorno e' chiamato a confrontarsi nello scenario globalizzato, quello dei giovani che hanno consapevolezza di cio' che puo' aiutarli nella costruzione del loro futuro, quello che non ha rendite di posizione da tutelare, capira' e si schierera' dalla parte della riforma.
Dall'altra parte troveremo le varie espressioni della conservazione: le rendite di posizione, coloro che mai hanno dovuto confrontarsi con il mondo della competitivita', i soliti guru della sinistra piu' retriva cresciuti e ben protetti nel mondo accademico, le corporazioni piu' forti, che in questi decenni di crisi della politica hanno visto enormemente acrescere un potere che ora sentono in pericolo.
Un paio di giorni fa il documento dei circa cinquanta costituzionalisti, ieri la sortita di Davigo: due mosse della stessa partita. Il tema dell'onestà della politica è sicuramente argomento di fondamentale importanza; un attacco così generico e generalizzato non puo' pero' avere che uno scopo solo: quello di inserirsi a gamba tesa nel passaggio referendario, per cercare di bloccare l'impulso di cambiamento che la conferma della riforma potrà avviare.

Paolo Razzuoli

Renzi e i timori che sia l'inizio di una "crociata"

di Francesco Verderami

Ha sempre pensato che i suoi più fieri avversari sarebbero alla lunga diventati i suoi migliori alleati, e ieri ne ha avuto la prova dopo aver letto l'intervista al Corriere di Davigo: "Davigo chi?", ha commentato d'istinto Renzi prima di imporre il silenzio al suo partito.

Le parole pronunciate dal presidente dell'Anm, quell'atto d'accusa alla politica così generico da far capire chi fosse nel centro del mirino, rappresentano - secondo il premier - "l'inizio di una crociata", o meglio la formalizzazione del conflitto che un pezzo di magistratura, forze politiche e poteri più o meno indeboliti avevano da tempo programmato contro Palazzo Chigi. Ai suoi occhi è come se Davigo avesse precostituito una sorta di comitato referendario per il no alle riforme: quella della giustizia, che è al vaglio del Parlamento, e quella costituzionale, che sarà al vaglio del Paese.

C'è più di un motivo se Renzi non ha reagito. Intanto non ha inteso offrire la patente di interlocutore istituzionale a un rappresentante sindacale, inoltre vuole capire quale sarà la reazione del corpo togato, dove già si segnalano stupore e malumore diffuso. Eppoi spettava formalmente ad altri dare risposta. La dichiarazione del vicepresidente del Csm, la sua denuncia contro chi "alimenta il conflitto tra istituzioni", ha dato infatti voce - senza esporlo - anche al presidente della Repubblica, che è presidente del Csm e con il quale Legnini si è consultato prima di mettere a distanza Davigo. Era da giorni peraltro che le due cariche dello Stato incrociavano opinioni preoccupate e la clamorosa sortita del presidente dell'Anm ha dato corpo a quei timori: perché un conto è proporsi come sindacalista delle toghe, altra cosa è esporsi da oppositore del governo.

E non c'è dubbio che lo scontro abbia una valenza politica. Le reazioni del Palazzo hanno tracciato il solco di un nuovo bipolarismo giudiziario, con un fronte che tiene insieme i Cinquestelle e quel pezzo di sinistra orfana della stagione dipietrista, e un fronte che raccoglie (quasi) tutto il Pd e (quasi) tutto il centrodestra. E' vero, questa mappa che divide neo-giustizialisti da neogarantisti non ricalca gli schieramenti che si contrapporranno al referendum sulla riforma costituzionale. Ma è altrettanto vero che la sfida per il primato della politica accomuna gli epigoni della Seconda Repubblica. E non solo. Quando Renzi pochi giorni fa al Senato ha condannato i "venticinque anni di barbarie giudiziarie", è tornato scientemente indietro con le lancette della storia fino alla Prima Repubblica, seppellita da Mani pulite. La "crociata" per il premier era di fatto già iniziata, lo si intuiva dagli umori che lasciava filtrare, dai ragionamenti sull'accerchiamento e sul complotto ai danni del governo. E siccome il Palazzo - denudato dalle inchieste e delegittimato dal malaffare - non ha l'autorità morale per imporsi, Renzi ha introdotto un nuovo schema d'ingaggio con la magistratura: regole garantiste dentro il corso naturale della giustizia. Un modo per far capire che sarebbe andato avanti con la riforma delle intercettazioni, respingendo la tesi di chi - nella sua stessa maggioranza - sosteneva che "avremmo dovuto fare prima, Matteo", dato che il caso Etruria e l'indagine di Potenza stavano esponendo il premier all'accusa del conflitto d'interessi. "Invece no", era stata la risposta di Renzi: "Arriveremo comunque all'obiettivo senza offrire il pretesto che per noi fosse una priorità". Una valutazione che aveva trovato conforto in Napolitano, convinto della necessità di rivedere le norme sulla pubblicazione degli atti giudiziari fin dai tempi del governo Berlusconi, se è vero che l'ex capo dello Stato non avrebbe perdonato al Cavaliere l'occasione persa quando la seconda versione della riforma - scritta dall'allora Guardasigilli Alfano e frutto di una mediazione con il consigliere giuridico del Colle, D'Ambrosio - venne cestinata dal leader del centrodestra.

Altri tempi, ma stesse storie tese con la magistratura e la sua struttura di rappresentanza, che Renzi non ha mai ricevuto manco fosse la Cgil, e contro la quale - appena arrivato a Palazzo Chigi - aveva attivato meccanismi anticasta con la polemica sugli stipendi e sulle ferie delle toghe. Ma gli eventi e gli affanni di governo avevano di recente invertito la tendenza, e la spinta rottamatrice sembrava esaurita. Fino all'avvento di Davigo all'Anm, dicono ora i renziani di stretta osservanza, secondo i quali la decisione dei magistrati di aggrapparsi a un simbolo degli anni Novanta, è stata valutata in controtendenza rispetto al rinnovamento generazionale in atto dappertutto, ed è stata giudicata come una scelta di retroguardia.
Perciò la sortita di ieri di Davigo non ha stupito il capo del governo, che ha accolto quelle parole come fossero un assist, in coerenza con il suo schema narrativo: il nuovo contro il vecchio. Anche se in un Paese attraversato ancora da una crisi economica e morale che sembra ricalcare una stagione del passato, non è ancora chiaro come finirà "la crociata". Lo si capirà con il referendum sulle riforme costituzionali.

(dal Corriere della Sera - 23 aprile 2016)

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