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Grecia. L'esito vero del referendum

di Carlo Bastasin

Alla fine, anche in Grecia la crisi dell'euro ha prodotto un cambiamento di fatto del governo. Come era avvenuto con Berlusconi, Zapatero e Papandreou anche ad Atene la gestione della crisi ha richiesto una modifica della linea negoziale e della rappresentanza politica nella trattativa con i partner. Questa osservazione può sembrare del tutto contro-intuitiva in considerazione del rafforzamento del primo ministro Alexis Tsipras dopo la sua personale vittoria referendaria, ma può diventare più chiara se consideriamo davvero quello che è successo ad Atene la scorsa settimana.

Nell'interpretazione comune, il referendum convocato da Tsipras doveva servire a rafforzare la posizione negoziale del governo greco nei confronti degli interlocutori europei. Ma in questa logica nessuno è riuscito a spiegare per quale ragione il primo ministro abbia preso il rischio spericolato di convocare una consultazione che secondo i sondaggi avrebbe potuto invece smentire la posizione del governo favorevole al no. Che cosa sarebbe successo infatti se avesse vinto il sì? Lo rivela il racconto, ascoltato direttamente dal ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble, a proposito dell'ultima riunione dell'Eurogruppo prima del referendum.

Da giorni i negoziati avevano cercato di avvicinare le posizioni di Atene a quelle della Commissione, «per questa ragione - racconta Schäuble – durante la riunione i ministri erano increduli davanti alla scelta del governo di Atene di fare campagna per il no. Alcuni di noi hanno chiesto a Yannis Varoufakis che cosa sarebbe successo se avesse vinto il sì: il tuo governo dice che rispetterà il voto degli elettori, ma come potrai essere credibile se dovrai aderire al sì dopo aver fatto campagna per il no? Come puoi pensare che ci aspetteremo che tu rispetti gli accordi che dovrai sottoscrivere? Varoufakis – ricorda Schäuble – rimase muto».

In quel momento probabilmente il ministro greco, che nutriva ambizioni politiche personali come punto di riferimento dell'ala intransigente di Syriza, aveva capito che lui sarebbe stato la vera vittima del referendum. La consultazione popolare non serviva a Tsipras a rafforzarsi nei confronti degli interlocutori europei, bensì nei confronti di quelli interni: in caso di vittoria del sì, la linea oltranzista della sinistra di Syriza sarebbe stata perdente e Tsipras avrebbe potuto negoziare con altri partiti più europeisti. Ma in caso di vittoria del no, Tsipras avrebbe unito la coalizione radicale dietro di sé rafforzando la propria leadership personale e tacitando le altre figure di spicco di Syriza. Come infatti è successo.

Vittima di uno di quei “giochi” tra negoziatori di cui pure insegna la teoria, Varoufakis dovette dimettersi la sera stessa su richiesta di Tsipras. Contemporaneamente il primo ministro ha aperto la trattativa con i partiti greci europeisti, ottenendo sia le dimissioni dell'ex premier e leader di Nea Dimokratia, Antonis Samaras, sia la firma congiunta di un documento a favore della ripresa immediata del negoziato. La base della trattativa con i partner è tornata a essere il documento della Commissione europea della scorsa settimana (non a caso non lo stesso su cui si è svolta la consultazione), come se il referendum non avesse inciso in nulla. Tsipras ha mandato la proposta ai partiti europeisti (non al governo) prima ancora che a Bruxelles, cercando informalmente il tipo di accordo di grande coalizione che aveva caratterizzato i cambi di governo del 2011 in Italia, Grecia e altrove.

L'episodio di Atene smentisce che i cambi di governo avvenuti durante la crisi dell'euro rispondano di per sé a logiche non democratiche. Al contrario nel caso greco, come in quello spagnolo del 2011, il cambiamento di linea è stato la conseguenza di una consultazione popolare. La logica a cui ha risposto la vicenda ateniese riguarda invece la necessità e la capacità di negoziare con i partner, anziché contro di essi: con spirito cooperativo anziché con un antagonismo tra Stati-sovrani. Sia dal punto di vista politico sia personale, i cambi di governo predispongono i nuovi leader a riprendere la trattativa anche se da posizioni non per forza più morbide.

Monti non è stato un interlocutore facile per la cancelliera, con cui ha ingaggiato nei primi mesi di governo un braccio di ferro che è rimasto poco noto al pubblico per la necessità di non far sembrare l'Italia isolata, ma che culminò con la minaccia di veto di Italia e Spagna al Consiglio europeo di giugno 2012.
Papademos e Rajoy non sono stati negoziatori più morbidi di Zapatero e Papandreou.
Dal punto di vista personale, i leader uscenti, Berlusconi, Zapatero e Papandreou arrivano fisicamente esausti all'ultimo atto, il vertice di Cannes di fine 2011, e rassegnati alle dimissioni. Papandreou viene sostituito da una manovra compiuta dal suo ministro delle Finanze sull'aereo che li riporta ad Atene, mentre il primo ministro cade addormentato per lo stress.

Berlusconi parla di «sollievo» nel momento in cui getta la spugna. In un episodio mai raccontato, nell'ottobre 2011, senza alcun preavviso, i rappresentanti del governo italiano non si presentarono a una cruciale riunione dell'Ecofin (a cui avrebbero dovuto assicurare ai partner le riforme a cui si erano impegnati) perché incapaci di reggere la pressione negoziale. La stessa insopportabile pressione si ritrova nelle memorie di Zapatero. Al vertice di Cannes d'altronde perfino la cancelliera Merkel scoppia a piangere sopraffatta dalla fatica della trattativa.
Negli ultimi giorni i negoziatori greci erano descritti come esausti. Ma al di là degli aspetti personali, il dato rilevante è che all'interno di ogni sistema politico nazionale cadono i rappresentanti che non sono più in grado, per credibilità o per debolezza, di sedere al tavolo di un negoziato che non avrà mai fine finché esisterà l'Europa.

(dal Sole 24 Ore - 10 luglio 2015)

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