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Commento introduttivo

So di avventurarmi su un terreno scivoloso: spero di non essere frainteso.
L'iniziativa del Presidente della Commissione Antimafia, Rosi Bindi, di rendere nota la lista dei cosiddetti "impresentabili", lungi dall'avermi sorpreso, e' un ulteriore episodio della deriva populista che sta attraversando il nostro sistema.
Certamente l'episodio in se' ha aspetti preoccupanti, sul piano della salute del nostro Stato di Diritto. Non mi pare sia esagerato ritenere inquietante che a tre giorni dalle elezioni si intervenga cosi' "a gamba tesa" nella competizione elettorale. E si e' intervenuto in base ad un codice di autoregolamentazione certo approvato dalla medesima commissione, ma che e' altra cosa - come ben si capisce - rispetto a norme cogenti che in uno stato di diritto dovrebbero costituire gli unici riferimenti dell'azione giudiziaria. Comunque questo codice prevede procedure per consentire il contraddittorio, cosa non possibile a tre giorni dalla tornata elettorale.
Ovviamente l'opportunita' politica dell'inserimento o meno di candidati nelle liste e' questione seria ma e un'altra cosa. Spetta alla valutazione dei singoli partiti, e non puo' quindi costituire oggetto di censure di natura giudiziaria, siano esse della magistratura, o, ancor peggio, di un organo costituito da esponenti politici (se pur con il profilo istituzionale della Commissione Antimafia), che si erge a giudice.
Non entro nel merito delle candidature, che non conosco affatto. Penso pero' che l'uso giudiziario della politica sia la strada peggiore che si possa imboccare. E' questo un altro autogol, destinato ad alimentare il "virus" dell'antipolitica, in un momento in cui ci sarebbe invece bisogno di riannodare il filo interrotto della fiducia fra Paese reale e le sue istituzioni di governo. Un virus che, domani lo vedremo, si fara' vedere con il campanello di allarme dell'incremento della fascia di coloro che al voto non partecipano piu'.
La questione morale e' importantissima. Ma va affrontata con norme semplici e chiare e con gli strumenti giusti, nel rispetto dei ruoli di ciascuno.
Se e' vero che e' difficile non accorgersi dell'esistenza di frange politicizzate della magistratura, e' altrettanto vero che la politica non deve assumere comportamenti che spettano all'ordine giudiziario. La confusione di ruoli non potra' che continuare a fare disastri. Troppo spesso si sceglie la strada che piu' si ritiene strumentalmente utile per i propri fini politici immediati, anziche' preoccuparsi delle conseguenze che le scelte producono sul piano della tenuta del sistema. E a questo proposito non si puo' nascondere il sospetto, oserei dire la certezza, che la Bindi sia stata mossa dalla volonta' di rivalsa interna al suo partito, posto che De Luca e' di sicura fede renziana. Per colpire gli avversari ormai si infrange ogni limite, mentre lo stato di diritto presuppone proprio il rispetto dei limiti imposti dall'equilibrio dei poteri.
La scelta della Bindi ha riportato l'orologio del diritto indietro di qualche secolo, richiamando i processi di piazza di medievale memoria. Non ce n'era sicuramente bisogno.
Infine due parole sulla vittima piu' illustre della vicenda: il candidato Pd alla Regione Campania, Vincenzo De Luca, ne' per difenderlo ne' per condannarlo, ma solo per esaminarne la vicenda in termini generali. Come dicevo sopra la valutazione sull'opportunita' politica della candidatura spetta agli organi del suo partito. Sul piano normativo pero' va detto che ha avuto una condanna in primo grado (nessuno puo' essere giudicato colpevole prima di una condanna definitiva), per abuso di ufficio. Nell'appalto per il termovalorizzatore di Salerno non poteva essere prevista la figura del project manager. è questo - secondo le motivazioni depositate dal tribunale di Salerno l'elemento che ha portato alla sua condanna per abuso d'ufficio. La figura del project manager non era prevista dal codice degli appalti: al suo posto andava nominato un Rup, Responsabile unico del procedimento. Sembrerebbe insomma (le cautele sono necessarie) che il reato sia stato quello di aver usato l'espressione project manager invece di coordinatore».

La materia e' trattata - nei suoi termini generali - in una riflessione di Michele Ainis, apparsa sul Corriere della Sera; una riflessione che mi pare utile proporre ai lettori di Fucinaidee.

Paolo Razzuoli

L’autogol giudiziario dei politici - il problema delle liste

di MICHELE AINIS

Una volta c’erano gli eletti; ma ormai sono di più i reietti. Perché i gironi infernali si moltiplicano, come i peccati via via elencati dalle leggi. Peccati dei sindaci o dei parlamentari, dei governatori o dei ministri. Ciascuno distinto dall’altro, come le categorie dei peccatori: ineleggibili, incompatibili, incandidabili, infine impresentabili. Ma di questo passo succederà che non si presenteranno al voto gli elettori.

È l’autogol della politica, specialità di cui fu campione lo stopper Niccolai. Loro sperano di guadagnare credito sottoponendosi all’analisi del sangue; invece ottengono discredito. Un po’ perché nelle vene della politica italiana circola ancora qualche litro di sangue infetto. Un po’ perché la cattiva politica degli ultimi vent’anni ha allevato un vampiro, che di sangue non ne avrà mai abbastanza. E allora puoi anche decidere, per esempio, di togliere il vitalizio agli ex parlamentari condannati (delibera del 7 maggio); quel vampiro obietterà che avresti dovuto togliergli la vita, non il vitalizio. Non che la questione morale sia un affare secondario. È importante, eccome. Non per nulla la Costituzione (articoli 48 e 54) pretende la dignità e l’onorabilità di chi ricopra un ufficio pubblico elettivo. Ma i politici hanno trasformato la questione morale in una questione strumentale. Usandola cioè per mollare uno sgambetto all’avversario, per risolvere beghe di partito. Opponendo all’uso politico della giustizia l’uso giudiziario della politica. E in ultimo forgiando un guazzabuglio di norme contrastanti . Sicché parlamentari e ministri precipitano all’inferno dopo una sentenza definitiva di condanna. Gli amministratori locali dopo una condanna in primo grado. Ma all’Antimafia basta il rinvio a giudizio per dichiararti «impresentabile».

Ecco, gli impresentabili. Nell’autunno scorso la commissione parlamentare Antimafia approvò un codice di autoregolamentazione. Allora tutti d’accordo, mentre adesso abbondano i pentiti. D’altronde pure questo è un film già visto: ne sa qualcosa Berlusconi, che votò la legge Severino salvo poi rimetterci il seggio in Parlamento. Quanto al codice dell’Antimafia, chi lo viola non rischia alcuna sanzione. Dunque non è un codice, è una chiacchiera. Però i partiti chiacchierati devono spiegare all’opinione pubblica perché hanno scelto il candidato impresentabile (articolo 3). Difficile farlo, quando la lista nera viene infiocchettata a due giorni dal voto. Ma è anche difficile sorprendersi se l’Antimafia la redige, dal momento che quest’obbligo deriva dal codice medesimo (articolo 4). Eppure dal Pd monta un coro di reazioni stupefatte. Noi, invece, non ci sorprendiamo più di nulla. Nemmeno che l’imputato principale (De Luca) minacci di denunziare il proprio giudice (Bindi). Comunque la si giri, per il suo partito quella candidatura è un autogol: l’ennesimo. C’è modo di mettere a partito la testa dei partiti? Sì che c’è, ed è pure un modo semplice. Basterebbe unificare i troppi rivoli di questo fiume normativo, dettando la stessa regola per chiunque chieda il nostro voto alle elezioni, dal Senato al Consiglio comunale. E servirebbe inoltre una legge sulle primarie, dove ciascuno fa come gli pare. Un’altra legge sui partiti, che la Costituzione reclama invano da 67 anni. Sulle lobby, quale esiste negli Usa da 69 anni. Servirebbe, in breve, una cornice di norme generali, concise, e possibilmente chiare. Dopo di che i politici facciano politica, lasciando la giustizia ai giudici. Anche perché, quando si pretende di fare due mestieri, per solito si procura un doppio danno.

(dal Corriere della Sera - 31 maggio 2015)

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