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Breve nota introduttiva

Domenico Quirico, grazie alla conoscenza ed all'esperienza maturate sul campo, e' sicuramente uno dei giornalisti italiani piu' esperti di mondo islamico. Le sue analisi e le sue valutazioni meritano quindi un sicuro credito.
Domenico Quirico e' nato ad Asti il 18 dicembre 1951. E' reporter per il quotidiano torinese La Stampa, caposervizio esteri. È stato corrispondente da Parigi e inviato di guerra. Si è interessato fra l'altro degli avvenimenti sorti a partire dal 2010-2011 e noti come "Primavera araba".
Nell'agosto 2011 è stato rapito in Libia e liberato dopo due giorni.
Il 9 aprile 2013, mentre si trovava in Siria come inviato di guerra, di lui si perde ogni traccia. La prima notizia del suo rapimento giunge il 6 giugno quando viene diffusa la notizia che Quirico è ancora vivo. Viene liberato l'8 settembre 2013, dopo 5 mesi di sequestro.

Paolo Razzuoli

La globalità del nuovo islamismo

di domenico quirico

Nei jihadisti che ho conosciuto, platealmente feroci o ipocritamente machiavellici, c’era un elemento comune: ciascuno di loro si sentiva la piccola parte di un tutto, e il tutto era visibilmente una parte di loro. E se fosse questa globalità, psicologica ma anche pratica, operativa, militare, il segreto della loro pestifera potenza, e quello che ci impedisce di capire. Il totalitarismo islamico è, nella sua essenza, senza confini. Li vuole distruggere i confini, le frontiere, le nazioni: un’unica ecumene, quella di Dio. Mentre noi occidentali, laudatori della globalizzazione, in realtà, penosamente, continuiamo a ragionare nei limiti dei vecchi confini nazionali: soprattutto quando sono i nostri.

In fondo cosa può legare il cuore di Parigi con una città di lamiera e capanne nel Nord della Nigeria e il deserto della Libia? Apparentemente nulla, se non qualche slogan «non c’è altro dio fuori che dio» che noi, autoproclamati sudditi della modernità ascoltiamo distrattamente e archiviamo come medioevali ed esotiche sopravvivenze.

I boko haram annichiliscono intere città come nelle guerre assire? "Ma quella è l’Africa".
La Libia è in pezzi, un emiro buccina fatwa omicide a Bengasi? "Periferie desertiche, alla fine il dio petrolio riunirà tutti attorno a un assegno, pagato da noi".
Un commando colpisce a Parigi? "Una scaglia sciaguratamente immigrata della follia siriana".

Il «nostro» Islam resta acquattato sotto la giacobina uniformità francese, largamente maggioritario, tollerante e tollerato.

Bin Laden era una provvidenziale semplificazione. Comandava già il terrore diffuso, non più localistico. Un Serpente terribile e velenoso, macchinante continue vendette. Ma bastava tagliare una testa e il resto del corpo dopo una serie di frenetiche convulsioni, sarebbe morto. Un assolutismo criminale che poteva avere mediocri epigoni, non eredi.

Oggi l’Internazionale islamista non ha testa, al Baghdadi è soltanto un nome, la pedina di una globalità. La Bestia non è più il serpente che esiste in natura, è il Leviatano, l’idra che rinasce ad ogni testa mozzata, si ricostruisce per partenogenesi. Il commando francese è annientato? Un altro colpirà, senza ricevere ordini, come in una catena di montaggio. Qualche forza militare al servizio dell’Occidente, curdi, sciiti, nigeriani, kenioti, riconquista zone di territorio piegate alla Sharia? La ribellione globale in nome del califfo si reinfiamma in un’altra parte del mondo, non hanno fine le terre del jihad.

E’ il fochismo guevarista convertito al teologico, un ingranaggio che si autoalimenta, inghiotte come un combustibile soldati martiri vittime. Non ci sono gerarchie, parole d’ordine, tutti sanno per cosa si battono: allargare la terra della sharia, riconquistare terreno alla vera fede, disarticolare il mondo di apostati e empi. Non c’è nessuno che da Mosul o da Raqqa ha inviato un messaggio in codice, via internet, ai killer di Parigi o ha ordinato al capo dei boko haram di dar fuoco a una città.

La intuizione «politica» della ricostruzione del Califfato ha trasformato, con la predica di uno sconosciuto ribelle iracheno nella moschea di Mosul, i fanatismi di migliaia di singoli e una manciata di insurrezioni tribali in un Tutto: le ferite che ciascuno riesce a infliggere allargano lo squarcio, la smagliatura, un colpo dopo l’altro arriveremo ad essere assediati nelle nostre città.

E’ come se negli Anni Trenta il Comintern della rivoluzione permanente si fosse affrancato dalla dispotica centrale moscovita, muovendosi come un corpo autonomo.

Solo se riusciamo a leggere il nuovo islamismo nella globalità riusciremo a capire la minaccia. Il califfato è un libro di ferro, squadrato, atroce, un libro che nessuno leggerebbe volentieri, ma i cui capitoli sono collegati. Per noi invece la terribile strage di Parigi è un attacco alla civiltà universale, il massacro nigeriano un episodio di una remota guerra locale, l’assassinio di due giornalisti tunisini cronaca nera sahariana… I governi occidentali sono certi di controllare tutto: con i satelliti i servizi di sicurezza, la tecnologia. Invece il califfato muove migliaia di uomini da un continente all’altro con armi e piani di informazioni senza che nessuno riesca a fermarli: forma reggimenti in Siria Iraq Libia e commandos sulle rive della Senna.

Ammettiamolo: non conosciamo chi ci sta di fronte, le nostre onnipotenze sono fittizie. Se prendete la metropolitana in boulevard Saint-Germain arrivate direttamente nel califfato: sì, ci sono città intere attorno alla capitale francese che vivono in un altro universo, dove si possono comprare armi da guerra, avere più mogli, ascoltare, non su internet, dal vivo, le prediche di ossessi, come nelle madrase afghane o della Arabia salafita. I ragazzi di banlieue hanno cominciato a partire per la guerra santa quando si combatteva contro Bush, in Iraq . Allora la prospettiva era il martirio, oggi si battono per il califfato «che sarà più grande della Francia».
Sanno che un giorno i bravi musulmani moderati e pazienti a cui noi chiediamo di isolare il fanatismo accetteranno le loro regole, per paura o per comodo, con la stessa obbedienza con cui hanno accettato le regole dei tiranni «laicisti», dei bizzosi sultani e dei pascià della loro storia immemorabile. «Al sabr gamil» la pazienza è bella, un proverbio arabo.

«L’Islam è una grazia, cristiano" mi ha detto un capo jihadista di cui ero prigioniero "vi illudete che abbiamo bisogno delle vostre porcherie per vivere, che siamo ormai deboli e obbedienti"?
ti racconto una storia: c’era nel deserto un cucciolo di leone che era cresciuto tra le pecore e il cucciolo pensava di essere una pecora anche lui, e belava e scappava di fronte ai cani. Poi un giorno un leone passò di lì e gli mostrò il riflesso in una pozza d’acqua e scoprì ciò che era davvero. Cominciò a ruggire. I cani fuggirono. Ecco: noi siamo musulmani non pecore, non dimenticarlo più, ci avete umiliato e sfruttato per secoli. E’ finita».

(da La Stampa - 10 gennaio 2015)

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