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Commento introduttivo

Da qualche giorno, assistiamo ad un crescendo di preoccupanti segnali sullo stato della nostra economia.
Un crescendo aperto dall'Istat che, la scorsa settimana, ci ha detto che il Paese e' ancora tecnicamente in recessione.

Qualche giorno fa la dichiarazione di Draghi, che ha detto che dovrebbe essere ceduta la sovranita' necessaria alle istituzioni europee, per fare le necessarie riforme che i singoli Stati non sono in grado di fare. Renzi, risentito, ha risposto che le riforme le fara' lui. Benissimo, staremo a vedere. Sta di fatto pero' che Draghi ha detto una cosa che sicuramente non piace, ma che offre uno spaccato purtroppo realistico del gap esistente fra tempi e contenuti delle riforme necessarie da una parte, e le difficolta' incontrate da vari Paesi, in primo luogo l'Italia, nel riuscire realisticamente a portarle in porto.

Ieri, lunedi' 11, e' arrivata la doccia fredda dell'agenzia di rating Moody’s Investors Service che fra l'altro, tramite una dichiarazione rilasciata al quotidiano on-line "Affaritaliani.it" da Sarah Carlson, afferma:
"I recenti dati sul PIL italiano hanno rivelato che l'economia del paese si è contratta dello 0,2% nel secondo trimestre di quest'anno rispetto al trimestre precedente. Alla luce di questi nuovi dati, ora prevediamo che l'economia italiana si contrarrà dello 0,1% nel 2014, contro la precedente previsione di 0,5% di crescita. Tutto ciò rende la riduzione del deficit e del debito più difficile e comporterà l'attuazione di misure economiche strutturali politicamente più impegnative".
"Il governo italiano - prosegue Sarah Carlson - ipotizza un deficit del 2,6% rispetto al PIL nel 2014 e il suo programma di stabilità prevede un disavanzo dell'1,8% nel 2015. Pensiamo che l'Italia mancherà entrambi questi obiettivi (che attualmente prevedono un deficit 2,7% rispetto al PIL in entrambi gli anni, con un significativo rischio di ulteriori revisioni al rialzo), e che l'onere del debito raggiungerà il picco del 136,4% del PIL nel 2014 per poi scendere al 135,8% nell'anno successivo".
"La recessione in Italia - conclude la Vice President di Moody’s Investors Service - avrà effetti negativi sulla politica fiscale e sul clima politico generale, sia a livello nazionale che europeo".

La dichiarazione dell'esponente di Moody’s, e' giunta nel giorno in cui è stata pubblicata la nota dal titolo 'Italy’s Recession Adds Headwinds to Country’s Fiscal and Structural Reform'. Documento che potrete leggere, in inglese, cliccando qui .

LA NOTA DI MOODY'S sostiene che l'Italia chiuderà il 2014 con un Pil in contrazione dello 0,1% contro il +0,5% stimato in precedenza, e mancherà entrambi gli obiettivi governativi di deficit/Pil collocandosi al 2,7% quest'anno e il prossimo, con "rischi significativi" di sforare ulteriormente.

Ovviamente le valutazioni delle agenzie di rating non sono il Vangelo e anzi hanno dato origine in varie circostanze a accese contestazioni. E' superfluo sottolineare come in un mercato globale cosi' profondamente condizionato anche dalla dimensione psicologica, basta una dichiarazione di un istituto importante per spostare masse enormi di capitali. E' quindi probabile che anche questa presa di posizione della nota agenzia americana abbia effetti sulla borsa e sullo spread.

Senza voler quindi prendere per oro colato le indicazioni di MOODY'S, a nessuno puo' sfuggire la loro convergenza con valutazioni non sospette, (vedi previsione Istat e dichiarazione di Draghi).

Moody’s, forzando un po' i confini dei propri compiti, si addentra nella dimensione politica, registrando le difficolta' della situazione. Valutazioni che, come agevolmente prevedibile, hanno suscitato un coro di reazioni di vario segno.
Fra i commenti che ho avuto modo di leggere, trovo interessante, e non convenzionale, la riflessione di Luca ricolfi che propongo ai lettori di Fucinaidee.

Paolo Razzuoli

Il paradosso del nostro benessere

di Luca Ricolfi

Quel che mi colpisce, nei commenti degli ultimi giorni, è il modo in cui ci stiamo risvegliando dal nostro sogno di mezza estate.

  

Di fronte agli ultimi dati negativi su crescita, consumi e spread, alcuni studiosi si limitano a riproporre le proprie ricette, come ad ammonire il premier: hai visto che, finché non fai quel che ti diciamo noi, le cose non possono cambiare? Accanto a questo filone un po’ ripetitivo, però, ce n’è anche un altro, tutto sommato più interessante. Alcuni commentatori, anziché insistere sulle omissioni del governo (soprattutto in materia economico-sociale), paiono suggerire che, in fondo, il problema siamo noi italiani. Un po’ per i soliti motivi, ovvero il fatto che quasi tutti hanno qualcosa da perdere da un vero cambiamento, ma un po’ anche in base a un ragionamento piuttosto sofisticato sul rilancio dell’economia. L’idea, detta in poche parole, è che nelle condizioni attuali non ci sia politica economica che possa trarre l’Italia fuori delle secche su cui si è arenata. Secondo questo modo di pensare una vera ripresa richiederebbe una ripartenza della domanda interna, e una tale ripartenza sarebbe impossibile senza un ritorno di ottimismo, fiducia, speranza, entusiasmo, coraggio morale.

 

Per dirla con l’efficace formula di Mario Deaglio: «la recessione passerà quando passerà la paura degli italiani», i quali «hanno le risorse per dare una forte spinta propulsiva alla domanda interna effettuando i normali consumi che le loro finanze sono in grado di sostenere» (La Stampa, 7 agosto 2014).

  

Resto sempre un po’ perplesso quando, per risolvere un problema, vengono invocati atteggiamenti morali e stati d’animo, perché mi sembra un po’ una confessione di impotenza, come se dicessimo: abbiamo esaurito tutte le cartucce che avevamo, ora non ci resta che mobilitare la nostra forza di volontà. In questo caso, tuttavia, la mia diffidenza per i rimedi idealistici si basa anche su due osservazioni di fatto, entrambe legate in qualche modo al benessere raggiunto dagli italiani.

  

La prima osservazione è che, nonostante la crisi e nonostante una parte delle famiglie italiane (circa 1 su 5) versi in gravi difficoltà, sia il nostro tenore di vita sia la nostra ricchezza familiare accumulata (fra le maggiori al mondo), restano abbastanza elevate da tenere molto bassa l’offerta di lavoro degli italiani (non così quella degli immigrati, che sono l’unico gruppo sociale rilevante che continua a guadagnare posti di lavoro). Detto con le crude parole di un amico napoletano, «finché c’è pasta e vongole» difficile pensare che gli italiani si risveglino dal loro torpore, tanto più in una situazione in cui la rapacità del fisco erode inesorabilmente i guadagni di tutti.

  

La seconda osservazione è che la paura degli italiani, e la loro scarsa propensione a spendere, non sono campate per aria, ma hanno un fondamento abbastanza preciso. Quel fondamento è la politica della casa, forse l’unica cosa importante che accomuna gli ultimi tre governi (Monti, Letta e Renzi). Il valore dell’abitazione, infatti, non solo è un elemento di tranquillità economica, ma è una delle determinanti cruciali che sostengono i consumi e la propensione a indebitarsi per consumare (una stima della Banca d’Italia di qualche anno fa quantificava in 25 miliardi l’impatto sui consumi di una variazione di 1000 miliardi del valore del patrimonio immobiliare).

  

Ebbene, sulla casa, negli ultimi 4 anni, abbiamo sciaguratamente seguito il mantra europeo della iper-tassazione dei patrimoni, nella presunzione (a mio parere errata, almeno per l’Italia) che le imposte sulla ricchezza siano poco dannose per la crescita. Il risultato è che per raccogliere 10-15 miliardi di tasse in più abbiamo abbattuto il valore del patrimonio immobiliare degli italiani di un ammontare che è difficile da stimare con precisione, ma che certamente è di un altro ordine di grandezza, diciamo almeno 30 volte maggiore (ricordiamo, giusto per dare un’idea, che il patrimonio immobiliare degli italiani si aggirava sui 5 mila miliardi nel 2007, e da allora è diminuito di almeno 1000 miliardi).

  

E’ così che, grazie alla politica, nel giro di pochi anni ci siamo ritrovati molto meno ricchi, e soprattutto molto più timorosi per il futuro. Fino a pochi anni fa chi aveva una casa poteva pensare di avere una riserva di valore racchiusa in un forziere, e se riusciva ad affittarla poteva anche pensare di percepirne un reddito, sia pure modesto. Proprio per questo poteva permettersi di consumare, e qualche volta di indebitarsi per consumare.

  

Oggi chi ha una casa, e la maggior parte degli italiani ne ha una, non la vive come un tesoro ma come un fardello. Non può venderla senza svenderla. Se aspetta a venderla non può escludere che fra 5-10 anni valga ancora di meno di oggi. Se l’affitta non sempre riesce a coprire i costi della manutenzione e delle tasse. Se non la affitta si dissangua grazie alle molteplici tasse che comunque deve pagare.

  

In una situazione del genere, come stupirsi dei dati comunicati dall’Istat nei giorni scorsi? Secondo una rilevazione iniziata oltre vent’anni fa (1993), la delusione degli italiani per la situazione economica non è mai stata forte come nell’ultimo anno (2013). Né sembra che il clima di fiducia stia migliorando, a giudicare dalla rilevazione di luglio sui consumatori.

  

Quello di fronte a cui ci troviamo, temo, è una sorta di paradosso del benessere. Abbastanza ricchi per poterci permettere ancora qualche anno di inerzia, ci siamo tuttavia impoveriti così tanto e così bruscamente, fra il 2007 e oggi, da non osare più consumi avventati. Forse è per questo che gli appelli all’ottimismo, da chiunque provengano, non funzionano più.

  

(da La Stampa - 12 agosto 2014)

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