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Lo strabismo sulle violenze di piazza

di Michele Brambilla

Quanto siamo strabici in Italia quando guardiamo alle violenze di piazza. Vediamo molto bene gli errori della polizia e siamo prontissimi a denunciarli (giustamente, sia chiaro a scanso di equivoci: giustissimamente) ma chiudiamo un occhio, se non tutti e due, di fronte agli «eccessi» di certi «manifestanti» che protestano, che poi non sono eccessi ma atti di guerriglia, e che poi non sono manifestanti che protestano ma delinquenti che delinquono.

  

L a cronaca di queste ultime giornate è lì a dimostrare questo strabismo. Per giorni ci si è stracciati le vesti per gli applausi che un sindacato di polizia ha tributato agli agenti condannati per la morte di Federico Aldrovandi. Anche qui, deve essere chiaro che non può esserci alcuna esitazione nel condannare quegli applausi. Benissimo ha fatto il ministro Alfano a non ricevere i membri di quel sindacato e a dire che pure la polizia, oltre ai familiari di Aldrovandi, esce offesa da una simile porcheria. Ma se a quel fatto è stato dato il giusto risalto, pochissimo si è detto e ancor meno si dice oggi, a due giorni di distanza, delle violenze scatenate in piazza, a Torino, da soggetti che chissà perché anche noi dei giornali non abbiamo il coraggio di definire per quel che sono, e chiamiamo «antagonisti», «no Tav», «spezzoni sociali» o altre scemenze del genere. Questi elementi hanno trasformato la manifestazione del primo maggio in una caccia all’uomo e alla fine diversi agenti sono finiti all’ospedale, chi con la testa rotta, chi con il braccio fratturato, e così via. Ma qualcuno ha detto una parola di solidarietà nei confronti di questi uomini che, per poco più di mille euro al mese, erano lì a cercare di garantire la sicurezza di tutti noi? Quei pochi che lo hanno fatto vengono emarginati come «reazionari», ed è già tanto che non siano chiamati «fascisti» come era di moda una volta.

  

Intendiamoci. La violenza di chi è in divisa non può essere equiparata a quella di un privato cittadino. È chiaro che è più grave. E quindi è ovvio che quando la si scopre l’impatto mediatico diventa straordinario. Ma come negare che accanto a una simile e doverosa reattività ci sia, in Italia, una particolare indulgenza nei confronti di chi considera una manifestazione di piazza come l’occasione per sfasciare vetrine e incendiare automobili? Provate a vedere se in Francia, o in Germania, o in Inghilterra o in Spagna si fa passare per «democrazia» la pretesa di andare in piazza con i caschi integrali e i bastoni. Solo in Italia si ha un concetto tanto elastico di libertà. Ne ricordiamo a decine, di giornate come il primo maggio torinese: e sono giornate delle quali, alla fine, rimangono solo le discussioni su come è intervenuta la polizia. Chi abbia cominciato a scatenare l’inferno, è sempre un dettaglio.

  

Una volta la polizia in Italia era sacra. Anche la malavita le riconosceva uno status particolare: quando cominciai a lavorare come cronista, i vecchi colleghi della «nera» mi ricordavano sempre che quando all’Isola, quartiere allora malfamato di Milano, un rapinatore aveva ucciso un poliziotto, tutti i delinquenti del quartiere si erano dati da fare per prenderlo e consegnarlo alla giustizia. Poi sono venuti anni in cui si è cominciato a disquisire su chi sono, in fondo, i veri criminali (i fuorilegge o la legge?), sul disarmo della polizia, sul diritto costituzionale del passamontagna.

  

Quegli anni maledetti, grazie al cielo, sono passati. Ma più di una scoria è rimasta, e fa sentire i suoi effetti. A furia di ripetere che bisogna dubitare sempre delle istituzioni – cosa anche giusta – abbiamo finito con il non dubitare mai: nel senso che siamo sempre certi che il potere sia marcio; e siccome la polizia e i carabinieri sono i suoi custodi, chi ce lo fa fare di difenderli.

  

Eppure, solo se non si fosse tanto strabici si potrebbe essere ancora più inflessibili nei confronti di chi, tra le forze dell’ordine, si rende responsabile di abusi, di violenze, insomma di reati. Invece tanta faziosità finisce anche con l’alimentare, in chi si trova in piazza con la divisa, un senso di frustrazione, di abbandono, di ingiustizia; insomma finisce con il sedimentare rancori che sono poi all’origine di tanti errori, forse anche di certi applausi sbagliati.

(da La Stampa - 3 maggio 2014)

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