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Sfida lavoro per chi cerca un «popolo europeo»

di Adriana Cerretelli

Il dado è tratto. Sarà Jean-Claude Juncker a correre alle europee di fine maggio nel ruolo di candidato dei popolari alla presidenza della prossima Commissione Ue. Sarà lui l'uomo che dovrà battere il socialista Martin Schulz in una gara che si annuncia serratissima.
Ex primo ministro lussemburghese, ex presidente di lungo corso dell'Eurogruppo, ex decano del Consiglio Ue, l'europeista di ferro amareggiato e deluso per l'involuzione intergovernativa e nazionalista dell'Unione negli ultimi anni, il rigorista che non esitò a scontrarsi con Angela Merkel per le sue clamorose amnesie sull'Europa sociale e solidale, sarà dunque il campione anche del suo partito, la Cdu-Csu, il maggiore dello schieramento dei popolari europei.

Ma la sua entrata in campo non è trionfale: ieri a Dublino Juncker ha vinto contro lo sfidante, il francese Michel Barnier, ma con margini ridotti rispetto alle attese: 60% contro 40% dei voti espressi a scrutinio segreto. Un chiaro segnale delle difficoltà che lo attendono, soprattutto nel campo aperto della grande battaglia elettorale europea che va a incominciare.

Queste elezioni non saranno come le altre. Prima di tutto perché, per la prima volta, proveranno a far scaturire dal responso popolare anche l'indicazione del nome del nuovo presidente della Commissione, secondo un'interpretazione molto estensiva del dettato del Trattato di Lisbona, per sottrarre di fatto al Consiglio europeo il suo diritto di scegliere. Ma soprattutto perché, anche in questo caso per la prima volta, lo scontro non avverrà sullo spartiacque dell'ideologia ma su quello dell'europeismo: tra il blocco dei filo-europei e quello degli anti-europei e scettici.

Al momento i sondaggi sono decisamente scoraggianti. L'avanzata del "fronte del rifiuto" dai più diversi colori sembra inarrestabile: conterebbe più di un terzo dei 735 deputati del nuovo Parlamento di Strasburgo.

Oltre a nazionalisti, populisti e xenofobi riuniti sotto le bandiere del Front National di Marine Le Pen, del partito della Libertà dell'olandese Geert Wilders, dell'austriaco Fpoe e della Lega, ci sono i conservatori anti-europei del britannico Ukip, cui potrebbero aggiungersi i partiti simili di Finlandia e Svezia e anche il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo.

Di più. A rafforzare lo schieramento potrebbe contribuire anche l'estrema sinistra europea che, lucrando ampi consensi su frustrazioni e problemi sociali creati dalla grande crisi dell'euro, potrebbe diventare il terzo gruppo del nuovo emiciclo, dopo popolari e socialisti se, come sembra, riuscirà a mettere a segno il sorpasso dei liberali, dovunque in forte perdita di consensi.

La risposta dei partiti tradizionali all'offensiva anti-europea è la fuga in avanti, il tentativo di europeizzare la contesa politica, di parlare a un popolo europeo che non c'è ma che si vorrebbe provare a creare facendogli scegliere il futuro presidente della Commissione Ue al posto dei governi che ultimamente non hanno brillato nel compito. Può questa novità galvanizzare davvero l'interesse popolare e battere l'assenteismo che rischia di essere l'altro grande vincitore morale delle prossime elezioni?

I dubbi sono legittimi per varie ragioni. Il primo viene dalla forzatura interpretativa delle disposizioni del Trattato di Lisbona, che si limita a dire che i governi nella scelta del futuro presidente della Commissione dovranno tener conto del responso delle urne. Lanciando la sua campagna elettorale con largo anticipo rispetto agli altri contendenti, l'attuale presidente del Parlamento europeo, il tedesco Martin Schulz, ha puntato a giocare sull'equivoco trasformandolo nella nuova verità (giuridica) rivelata.

Che però resta una mistificazione, mirata a strumentalizzare un voto popolare per un fine che non gli è esattamente proprio in questa competizione. Naturalmente nessuno nega che, se avrà successo, l'operazione potrebbe mettere i governi di fronte a una sorta di fatto compiuto: non potranno ignorare un verdetto popolare dal peso ineludibile, soprattutto in un'Europa le cui recenti prepotenze e contorsioni tecnocratiche rendono più che mai urgente un bagno di rilegittimazione democratica.

Ma è questa la strada realistica in un'Unione che negli ultimi anni si è rinazionalizzata nei mercati e negli istinti, è diventata più intergovernativa e sempre meno comunitaria, ha visto i suoi popoli asserragliarsi, in difesa dalla crisi, dentro i confini "patri" piuttosto che abbracciare gli orizzonti europei?

Ma c'è un'altra mistificazione che rischia di tradire il voto popolare, ammesso che la battaglia per la Commissione Ue entri davvero nelle corde di un'opinione pubblica Ue che di questi tempi sembra a tutt'altri interessi interessata. Si sa che il cancelliere tedesco non vorrebbe a nessun costo vedere Schulz alla testa della Commissione Ue.

Di qui il nullaosta al candidato Juncker, che parla tedesco e potrebbe quindi tener facilmente testa nei dibattiti televisivi all'avversario socialista.
In realtà però la Merkel vorrebbe Juncker alla presidenza del Consiglio, non della Commissione. Tutte voci da verificare. Che però la dicono lunga sulle manovre di potere che si nascondono dietro questo presunto esercizio di democrazia europea.

C'è un altro aspetto non secondario della partita. La Commissione è l'istituzione super partes voluta dai Trattati e, in quanto tale, guardiana dei medesimi.
Possiede una serie di poteri indipendenti ed esclusivi, almeno sulla carta: di iniziativa legislativa, in materia di politica della concorrenza. E di politica economica, tra l'altro recentemente rafforzati da poteri intrusivi nei bilanci nazionali degli Stati membri.

Come si può conciliare allora la politicizzazione della Commissione Ue con i suoi compiti di Authority indipendente, di organo di mediazione tra i diversi e spesso opposti interessi degli Stati membri? Quale garanzia di imparzialità e indipendenza di giudizio potrà avere in futuro se acquisirà i connotati di un'istituzione politica a tutti gli effetti, tra l'altro in un'Unione che, perdute le ambizioni federali, slitta sempre più verso un assetto intergovernativo?

Sono queste le ragioni "forti" che oggi inducono molti governi ad opporsi alla selezione politico-parlamentare del presidente della Commissione. Una scelta prematura rispetto alla realtà attuale dell'Europa. Una scelta "controvento" che per di più non è affatto detto possa propiziare una brezza più carezzevole capace di riconciliare i cittadini incattiviti con un'Europa che ha deluso.

«Abbiamo 20 milioni di disoccupati, sono il 29° stato dell'Unione» ha ricordato ieri Juncker a Dublino.
Uno stato da espellere al più presto. È questa la grande priorità, la vera leva capace di ricostruire il consenso popolare. Il resto per ora sono chiacchiere. O quasi.

(dal Sole 24 Ore - 9 marzo 2014)

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