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La politica extraterrestre

di Fabrizio Forquet

Se un marziano assistesse al dibattito politico di questi giorni in Italia, si farebbe la convinzione di un Paese con partiti terribilmente litigiosi, ma tutto sommato senza grandi problemi di altra natura. Un Paese dove le cose vanno così bene che la politica può occuparsi esclusivamente dell'intesa o meno con un vecchio leader di nome Silvio Berlusconi, della possibilità che questo accordo si faccia presso un non meglio precisato «Nazareno», dell'opportunità che del patto facciano parte tali "alfaniani", altrimenti anche detti - con acronimo indecifrabile - Ncd.

Un'Italia dove - evidentemente - l'economia gira a buon ritmo, i giovani trovano lavoro senza sforzi, le imprese possono competere e produrre in un sistema efficiente. Non il paese sull'orlo del baratro che tutti, invece, ben conosciamo. Quel paese dove la crescita resta una chimera (come confermato ieri dai dati della Banca d'Italia) e che ha bisogno urgente di un governo che governi, di una maggioranza che agisca senza indugi sui grandi nodi strutturali dell'economia e del lavoro.

Era questo lo spirito con cui erano nate le larghe intese, ed era questa la speranza dopo che la frattura del centro-destra aveva prodotto un governo più omogeneo e, quindi, potenzialmente più capace di incidere. Da quell'ottobre, invece, proprio quando il paese andava accompagnato verso una difficile ripresa, il tasso di produttività del governo e della maggioranza è andato calando in proporzione diretta all'aumento di litigiosità e astrattezza del dibattito politico. Sempre meno policies, sempre più politics, e non della migliore.

Non c'è da sorprendersi, allora, se da Bruxelles rischia di arrivare una doccia gelata, sotto forma dello stop all'Italia su quella clausola di flessibilità per gli investimenti che il governo ha ottenuto solo in cambio di impegni molto precisi sulla spending review, sulle dismissioni e sul rientro dei capitali. Fu Saccomanni, in ore molto difficili, a strappare a Bruxelles una finestra di tempo che consentisse all'Italia di non modificare in corsa la manovra finanziaria. Ma il tempo si sta rapidamente esaurendo. E a Bruxelles c'è una burocrazia arcigna e occhiuta, non lo sguardo benevole e ingenuo del nostro extraterrestre.

Se non vogliamo rinunciare a tre miliardi di investimenti, e correre il rischio di dover approvare in corsa pesanti manovre correttive, bisogna dare subito un segnale su quei tre capitoli su cui ci siamo impegnati con l'Europa. Sulla revisione della spesa, in particolare, è tempo di passare dalle parole ai fatti. Così come sulla riduzione della pressione fiscale su lavoro e imprese, come ci chiede anche il Fondo monetario internazionale (si veda l'articolo che pubblichiamo a pagina 2), non è più possibile limitarsi a impegni e piccoli segnali.

Ma il Governo e la maggioranza oggi appaiono come paralizzati. Come se tutte le energie mentali fossero assorbite da un confronto politico defatigante e totalizzante. Anche un provvedimento importante, e sostanzialmente pronto, come la delega fiscale, continua a galleggiare tra piccole modifiche in Parlamento e non riesce a diventare legge. In questo scenario, l'unica forza attiva che sembra in grado di incidere è quella con cui Matteo Renzi sta provando a portare a termine una riforma elettorale in grado di produrre maggioranze e governabilità, il superamento del bicameralismo e - da non sottovalutare - la revisione dell'architettura dello Stato prevista dal Titolo V. Non è dato sapere come si concluderà il tentativo, ma è bene augurarsi che abbia successo.

Nel frattempo, però, Letta e Saccomanni hanno la possibilità di dimostrare che un governo c'è. Non perché lo chiede l'Europa (anche per questo). Non perché Renzi lancia l'hashtag #Enricostaisereno. Ma perché l'Italia non è il paese del marziano. È un luogo dove vivere sta diventando sempre più difficile. E non può aspettare i tempi infiniti di un dibattito politico eternamente inconcludente.

(dal Sole 24 Ore - 18 gennaio 2014)

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