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La periferia delle virtù smarrite

di Stefano Folli

Se qualcuno aveva ancora dubbi sul ruolo delle Regioni, o meglio dell'istituto regionale per come è venuto appannandosi negli anni recenti, lo psicodramma del Piemonte è molto istruttivo. La sentenza del Tar che venerdì scorso ha giudicato di fatto illegittimo il governo locale quattro anni dopo l'elezione ora contestata è una pagina malinconica da cui non esce bene nessuno. Non la magistratura con le sue decisioni-bomba a scoppio ritardato, suscettibili inevitabilmente di diventare oggetto di violente polemiche. E certo non i politici, i cui atti pubblici nel quadriennio finiscono sotto una pesante ipoteca, di natura morale prima ancora che giuridica.

È un'altra ombra che si allunga su di un istituto che è riuscito a perdere credibilità al Nord come al Centro e al Sud, tradendo le attese e la fiducia dei cittadini. Si dirà che a Torino non si è trattato di uno scandalo vero e proprio, ma di un'interpretazione del meccanismo elettorale e del gioco delle alleanze. Sarà pure, ma il risultato è ugualmente disastroso. Di fatto la stragrande maggioranza delle Regioni ha conosciuto nell'ultimo decennio una serie infinita di infortuni, offrendo l'immagine malinconica di un piccolo cabotaggio amministrativo costoso e inefficiente (non sempre, ma spesso).

Lasciamo stare la tentacolare e farraginosa macchina del cosiddetto "federalismo", una delle imprese più fallimentari del ventennio appena trascorso. Nel rapporto costo/benefici le poche novità positive introdotte da queste faticose riforme sono state pagate a caro prezzo dai cittadini; ma nella maggior parte dei casi hanno condotto solo a spese crescenti senza modificare in meglio la qualità della vita. E se vogliamo restare nel campo del malcostume, se non proprio dello scandalismo, c'è dell'altro.

Il caso della Regione Sicilia, dove gli eletti "grillini" sembrano essersi adeguati in fretta alla giungla dei privilegi locali, è quanto mai significativo. In sostanza, non c'è bisogno di citare i casi limite, come il Lazio della gestione che ha preceduto l'attuale, per rendersi conto che l'istituto regionale ha bisogno di essere profondamente rinnovato. Qualcuno dice: aboliamo le Regioni piuttosto che le Province. Potrebbe non avere torto. Ma niente pericolo: nessuna Regione è a rischio di chiusura anticipata nei prossimi anni; e a costo di passare per scettici, c'è da scommettere che anche le Province possono stare tranquille, salvo casi eccezionali.

Il problema è che il discredito istituzionale non è più sopportabile. Finché riguardava solo il governo centrale si poteva pensare di rimediare attraverso un adeguamento dei profili politici unito a un virtuoso riformismo. Sappiamo come è andata. E il corto circuito al centro ha finito per avvelenare anche la periferia. O comunque non si è riusciti a mettere in campo gli opportuni anticorpi. Per cui oggi l'inquinamento delle amministrazioni locali ha moltiplicato i fattori di malessere del sistema e ha contribuito in misura determinante ad accrescere la sfiducia dell'opinione pubblica. I segnali li abbiamo visti in occasione delle ultime elezioni politiche e ci prepariamo purtroppo ad averne conferma nelle prossime europee. Peraltro, senza andare troppo lontano, basta vedere quanti sono gli italiani che, interpellati dai sondaggisti, dichiarano il loro disinteresse verso la politica: mai meno del 40 per cento.

Diverso è il quadro che nell'indagine IPR-marketing emerge dalla fotografia dei comuni. Anche qui pesano errori e disillusioni, ma la sensazione è che nel complesso gli italiani mantengono una considerevole fiducia in chi amministra i municipi. Semmai va riconosciuto che la retorica semi-ideologica dei "sindaci arancioni" ha fatto il suo tempo, come sottolinea bene Gianni Trovati nella pagina accanto. Gli elettori premiano la serietà e la correttezza degli amministratori capaci piuttosto che i chiassosi annunci di improbabili rivoluzioni che nascono "dal basso". E se è vero che la mappa amministrativa nella parte alta della classifica è tinta di rosa, poiché il centrosinistra è in netta maggioranza, è altrettanto vero che al primo posto abbiamo un sindaco di centrodestra: Alessandro Cattaneo a Pavia, erede di una tradizione che ha nel veronese Tosi, leghista "anomalo", il suo capofila.

Ora Tosi è sceso al 21esimo posto, ma bisogna considerare che è difficile confermare un altissimo apprezzamento dopo il rinnovo del mandato. C'è chi ci riesce, come lo stesso primo cittadino di Verona o come il ravennate Matteucci, saldo al 50esimo posto e capace di tener viva la candidatura della sua città a capitale europea della cultura. Tuttavia ciò che più colpisce è il significato politico dell'ascesa di Cattaneo al di sopra del mare rosa. Il sindaco di Pavia rappresenta un volto giovane e credibile sul fronte opposto a quello di Matteo Renzi. Non a caso egli stesso aveva coltivato l'ambizione di presentarsi come il volto del vero rinnovamento post-berlusconiano nel centrodestra. E infatti è stato rapidamente messo da parte dal vertice romano di Forza Italia. Buon per lui che ha saputo prendersi una rivincita nella sua città.

(dal Sole 24 Ore - 13 gennaio 2014)

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