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Breve commento introduttivo

In varie occasioni ho avuto modo di sottolineare come nel nostro Paese risulti vischiosa l'oggettivita' della produzione legislativa: un atteggiamento che rischia di compromettere le fondamenta stesse dello Stato di diritto.
Infatti, soprattutto negli ultimi decenni, sempre piu' la produzione ed interpretazione normativa e' sembrata piu' ispirata a situazioni contingenti del dibattito politico, che non pensata in virtu' di una visione generale e in un contesto di oggettivita' giuridica.

Un tema delicato, che forse non riguarda solo l'Italia. L'analisi comparata della produzione normativa europea, su cui sono a disposizione interessanti pubblicazioni, porta alla conclusione che negli ultimi decenni la produzione normativa legata a pressioni di gruppi e/o lobbies e' decisamente accresciuta.
Ma in Italia ormai siamo al paradosso delle "leggi ad personam" e delle "interpretazioni ad personam".

Gli esempi sono infiniti. Per tutti, bastera' ricordare come la vigente disciplina normativa e' stata pensata sulla base di valutazioni di parte che, nonostante le chiacchiere, sono estremamente resistenti e, almeno sino ad ora, ne hanno impedito la modifica.

Altro esempio, e' la sbandierata ineleggibilita' di Berlusconi. Gia' ho avuto modo di esprimere qualche opinione qualche settimana fa, in occasione di manifestazioni indette per chiederne l'ineleggibilita'. Mi fa ovviamente piacere leggere, nel contributo di seguito riportato, che una figura di indiscussa competenza si muova sulla stessa lunghezza d'onda.

Anche la parte di Amato dedicata alla proposta di legge sui partiti, attesta come ormai ci si muova a vista, senza bussola e con la memoria corta.

Paolo Razzuoli

Le ragioni legali che i saggi non svelano

di Giuliano Amato

Tralascio oggi altri temi e dò sfogo alla mia anima di giurista, che si ribella all'antagonismo senza qualità delle due discussioni più accese della settimana, sulla ineleggibilità di Silvio Berlusconi e sulla legge dedicata ai partiti in base all'art.49 della Costituzione. La politica ha una naturale propensione a ricondurre a quel tipo di antagonismo qualunque tema che generi posizioni diverse, ma in casi come questi toccherebbe ai "dottori" fornire le necessarie bussole tecniche. Salvo rare eccezioni ciò non è accaduto e il dibattito è tuttora prigioniero di pro e di contro tutti esclusivamente ed opinabilmente politici. Non dovrebbe essere così ed è utile spiegarlo. Chi è contrario all'ineleggibilità di Silvio Berlusconi ed è di centro destra accampa la forza del voto popolare contro i cavilli giuridici. Chi è parimenti contrario ed è di centro sinistra sostiene che gli avversari politici si combattono con le armi della politica e che così giustamente si è fatto anche in passato. Chi è invece favorevole sostiene che "la legge" è lì da decenni, ma il conflitto di interessi di Berlusconi non lo si è mai voluto colpire, ed ora, specie dopo la sentenza che lo ha condannato a Milano per frode fiscale, la sua presenza in Parlamento è sempre meno sostenibile.

Quasi nessuno parla, però, della norma dalla quale sarebbe stabilita l'ineleggibilità di Berlusconi. Ciò che i più sanno è che essa è prevista da quella legge che è lì da decenni e trovano per questo scandaloso che non la si sia applicata per vent'anni. Può indurli a cambiare idea chi dice che, non avendola applicata per vent'anni, non si può cominciare a farlo ora? Bisogna ammettere che, se di questo soltanto si trattasse, potrebbe aver ragione chi ha detto che è come se un serial killer non condannato per i primi sei omicidi dovesse essere assolto una volta che lo si becca dopo il settimo.

Il fatto si è che la legge in questione è bene diversa da quella che inequivocabilmente condanna per omicidio chiunque uccida qualcun altro al di fuori di ogni esimente. Si tratta infatti del testo unico elettorale del 1957, il quale, all'art.10 tuttora vigente, dichiara non eleggibili, fra gli altri, "coloro che in proprio o in qualità di rappresentanti legali di società o di imprese risultino vincolati con lo Stato per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica…". E se questa è la norma del caso, c'è poco fare: Silvio Berlusconi non è il rappresentante legale della società vincolata con lo Stato eccetera eccetera.

Si dirà: ma ne è l'azionista principale, il boss, l'ideatore e il regista. Può ben essere, ma da quando esiste la Costituzione della Repubblica vige il principio, non contestato da nessuno, che le norme limitative di diritti non si devono interpretare in via estensiva e il principio vale per i poveri disgraziati come per i Berlusconi. In caso contrario, all'ostilità per le leggi ad personam si accompagnerebbe una singolare predilezione per le interpretazioni ad personam. Ha avuto perciò le sue ragioni, non politiche ma legali, il Parlamento che ha interpretato quell'art.10 in conformità al suo significato letterale, sono le stesse ragioni che sorreggono quell'interpretazione anche oggi, e chi voleva che Berlusconi diventasse ineleggibile avrebbe dovuto far approvare gli emendamenti, ripetutamente presentati, per estendere l'ineleggibilità oltre i rappresentanti legali. Ma ciò non è accaduto.

E passo al disegno di legge del PD sull'ordinamento interno dei partiti, subissato da un coro di critiche, sull'assunto che con esso si volessero escludere dalle prossime elezioni i movimenti e quindi i grillini. Ed ecco allora tutti, non solo i grillini, a pontificare sulla grave e sgraziata inopportunità di una iniziativa del genere. Mi sono chiesto a questo punto se ero sempre nello stesso paese che, neppure un anno fa, questa legge la invocava a gran voce, sino a ritenere addirittura un vulnus che non la si fosse approvata prima della nuova disciplina sul finanziamento dei partiti (licenziata poi nel luglio), di cui avrebbe dovuto essere l'indispensabile cornice, ai fini dell'art.49 della Costituzione.

E' vero che l'art. 49 non prevede alcuna legge, ma qui un po' di storia ci aiuta a capire perché e perché invece un anno fa la si volesse. Norme sulla democrazia interna dei partiti ci sono in molti ordinamenti democratici, ma i nostri Costituenti furono molto cauti sul tema, perché c'era il timore del partito comunista di diventarne il bersaglio sino a trovarsi fuori legge (come poi sarebbe accaduto nella nuova Germania federale). Di qui quel concorso alla politica nazionale "con metodo democratico" dell'art. 49, una formula ambivalente, subito interpretata nel senso che democratici i partiti dovessero essere nella loro azione esterna, senza che nessuno potesse mettere però il naso nella loro organizzazione interna.

Questa eccezione italiana ha retto sino a quando i partiti hanno avuto la forza di farsi accettare come i veri sovrani del nostro sistema istituzionale. Ma col tempo i cittadini si sono sempre più accorti che erano i partiti a dover essere un loro strumento, non loro uno strumento dei partiti. Negli anni '80 Norberto Bobbio scrisse pagine memorabili su questo e da allora, grazie anche alla normalizzazione del partito comunista, quel "metodo democratico" ha preso ad essere inteso, sia come metodo esterno, sia come metodo di organizzazione interna. Non solo, quando dei partiti sono venute fuori le vere e proprie magagne, che vi fosse una legge a garanzia della loro democrazia interna è diventata una vera e propria pretesa, una pregiudiziale perché continuassero a ricevere, in una forma o nell'altra, risorse pubbliche.

Di qui il clima dello scorso anno, quando fu corale in Parlamento la richiesta di democrazia interna, trasparenza delle procedure e dei conti, registrazione degli statuti e degli organi dirigenti. Il che pareva opportuno non solo per ragioni di democraticità, ma perché in un paese tormentato dall' infiltrazione di criminalità organizzata e di logge segrete, sapere a chi i cittadini danno i loro soldi e affidano la selezione dei candidati alle cariche pubbliche è una preziosa garanzia. Ed era ovvio, allora, che ciò valeva per i partiti come per i movimenti, se ed in quanto i movimenti volessero usufruire di agevolazioni pubbliche e presentare candidati alle elezioni.

Ebbene, ora nulla di questo è vero, perché è tornato il timore del vecchio Pci che serva non a regolare, ma ad escludere qualcuno? Sbaglia dunque anche il Governo, che nel documento appena approvato sul ridimensionamento del contributo pubblico alla politica, la democrazia interna torna a richiederla? Forza, diano una mano i "saggi", cioè gli esperti, a diradare, non a vellicare, equivoci ed errori. Altrimenti faranno bene le istituzioni a non ascoltarli più .

(dal Sole 24 Ore - 26 maggio 2013)

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