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La competitivita', tema dimenticato.

di Antonio Polito

Forse stiamo avendo la campagna elettorale che ci meritiamo. Si avverte rassegnazione, assuefazione a un destino di impoverimento e di declino. Ognuno se ne lamenta, certo, e ognuno cerca di lenirne il disagio tirando la coperta dalla propria parte, magari preparandosi a votare per chi promette di proteggerlo di più; ma nessuno sembra davvero credere che esista il modo di allargare la coperta. L'essenza della crisi italiana resta nascosta, taciuta: produciamo troppa poca ricchezza rispetto a quanta ne consumiamo. Per questo ci siamo riempiti di debiti. Se vent'anni fa si poteva credere allo slogan «meno tasse per tutti», ora il pessimismo consiglia un «meno tasse per me e più per gli altri». Il tarlo del «gioco a somma zero», l'idea che se uno sta meglio un altro deve per forza stare peggio, si è insinuato nello spirito pubblico della nazione. In parte è l'effetto di una lunga depressione. Ma ne è anche la causa. Abbiamo avuto quindici anni di stagnazione e cinque di recessione; nessuno, neanche il Giappone, ha conosciuto un ventennio peggiore.

I partiti attizzano la guerra fratricida tra italiani per le risorse pubbliche, ingegnandosi a scovare sempre nuove tasse per sostituire quelle che pagano i propri elettori: accise sui tabacchi al posto di imposte sulla casa, condoni dei capitali in Svizzera invece che gettiti di Equitalia, patrimoniali sui ricchi per sconti sui poveri. Si illudono di usare il Fisco come strumento salvifico di giustizia sociale. Di conseguenza si scagliano addosso devastanti sospetti di clientelismo fiscale: i quattro miliardi dell'Imu servono a salvare il Monte dei Paschi o a pagare le multe per le quote latte?

L'altra sera in tv c'era un servizio sulla crisi della storica Cartiera Burgo. Un operaio la spiegava semplicemente così: non siamo più competitivi, l'energia elettrica costa troppo, non conviene più produrre qui. Si potrebbe aggiungere che anche il costo del lavoro è troppo alto, nonostante i salari siano troppo bassi, perché dalla nascita dell'euro a oggi è cresciuto in Italia il 30% in più della media europea. Si potrebbe aggiungere che non si investe in ricerca applicata, che il mercato del lavoro è ancora uno dei più rigidi del mondo, che i gradi di burocrazia necessari per avviare un'impresa sono cinquanta come le sfumature del grigio. Uno studio in circolazione a Francoforte mette il nostro Paese in fondo alle classifiche di tutti i fattori di competitività, compresi i livelli di corruzione e di educazione. Ma i politici in studio non hanno parlato di niente di tutto ciò. Hanno cominciato a snocciolare progetti, ovviamente finanziati con le tasse, per assistere le vittime di questo tsunami sociale o per disegnare «piani» per il lavoro, magari fantasmagorici come quello dei 4 milioni di posti evocato ieri da Berlusconi. Ma come si crea lavoro se non si producono più beni e servizi, e a costi minori?

Ha scritto Lorenzo Bini Smaghi sul Financial Times che la parola mancante di questa campagna elettorale è quella cruciale: competitività. La nostra non è migliorata neanche dopo la crisi, nonostante la cura da cavallo della svalutazione interna: è infatti cresciuta meno che in Spagna e Irlanda, perfino meno che in Grecia. Per questo noi italiani stiamo soffrendo più di ogni altro in Europa, con l'eccezione dei poveri greci: dal 2008 il Pil è sceso di 7 punti, facendo fare al nostro reddito un balzo indietro agli anni 90. La crisi è così grande che non andrebbe sprecata. E invece la stiamo sprecando, con una campagna elettorale che somiglia sempre meno all'alba della Terza Repubblica, e sempre più a una reincarnazione della Seconda.

(dal Corriere della Sera - 8 febbraio 2013)

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