di Giuliano Amato
Siamo in tanti ormai a ritenere che all'Europa ed all'euro serva soprattutto una svolta decisa in direzione dell'integrazione politica.
Eppure - i lettori
lo avranno notato - da questo fronte europeista nessuno ha applaudito Angela Merkel, quando, in nome dell'integrazione politica, ha proposto al Consiglio
europeo della scorsa settimana la creazione di un nuovo commissario, col potere di adottare decisioni vincolanti sui bilanci degli Stati membri.
Né è stato
criticato Mario Monti che, europeista convinto, alla Cancelliera ha risposto seccamente che non abbiamo bisogno di ulteriori poteri speciali. Che succede?
Siamo o non siamo favorevoli all'integrazione politica?
Lo siamo, ma ciò che emerge con sempre maggiore evidenza è quello che, proprio alla vigilia della proposta della Merkel, aveva scritto Philip Whyte, nel
suo "Alice in Euroland" (cer.org.uk, 9 ottobre 2012).
In tema di integrazione politica - questo era il punto centrale di Whyte - si contrappongono ormai
due scuole di pensiero, che la vedono in termini completamente diversi.
Per alcuni, e in particolare per coloro che l'integrazione la vogliono esclusivamente in funzione della disciplina collettiva di cui sentono il bisogno, l'integrazione non deve cambiare l'attuale impianto intergovernativo delle politiche economiche e fiscali, deve solo imporre al suo interno regole più rigide, ad applicazione più efficacemente garantita.
Per altri l'integrazione si realizza attraverso l'attribuzione di competenze e poteri più forti al livello sopra-nazionale, in modo che sia esso a garantire la stabilità dell'euro e a correggere gli squilibri che la minacciano.
La strada sulla quale ci si è mossi in questi tre anni è la prima, intanto perché poggiava sul solco del coordinamento intergovernativo prescelto e praticato sin dai tempi del Trattato di Maastricht e poi perché corrispondeva alla visione tedesca della crisi in cui è caduta l'eurozona, dovuta - si pensa per lo più in Germania - alle condotte dei paesi più indebitati che vanno raddrizzate.
Non è che questo punto di vista sia privo di fondamento, tutt'altro. Il fatto si è, però, che la cura contro la crisi affidata a un crescendo di vincoli di fonte intergovernativa sta provocando una serie di effetti collaterali negativi, che sono uno più grave dell'altro: alimenta un'ostilità reciproca fra le opinioni pubbliche nazionali che mina nelle sue stesse fondamenta l'edificio dell'integrazione, si affida soltanto a correzioni comportamentali di cui Stati indeboliti finiscono per essere sempre meno capaci, non è in grado infine di contrastare gli effetti necessariamente recessivi delle sue misure, perché non ha gli strumenti per farlo e provoca così l'avvitamento in una recessione che fa sprofondare le economie deboli e lambisce ormai anche le più forti. Insomma, è come un trattamento di rudimentale chemioterapia, che forse uccide le cellule malate, ma devasta senza remore l'intero organismo.
Per questo cresce l'opinione che sia necessario cambiare strada e - lo nota da Londra lo stesso Whyte - comincia anzi a prevalere la preferenza per l'altra
accezione di integrazione politica, quella che punta non tanto e non soltanto ad imporre il cambiamento delle condotte sbagliate, ma a costruire attorno
all'euro un impianto di tipo federale, con poteri e strumenti di intervento più efficaci sia nel proteggere la stabilità dello stesso euro sia nel ridurre
le divergenze economico-finanziarie che la mettono a rischio.
Ciò che conta è che una tale preferenza ha preso a manifestarsi non soltanto fra i commentatori e gli analisti, ma fra gli stessi addetti ai lavori, che
ovviamente la esprimono in primo luogo con il merito delle scelte che fanno, non con le definizioni che adottano per dar loro un nome. In questo senso,
la scelta estiva della Banca Centrale Europea di intervenire «con mezzi illimitati» sul mercato secondario dei titoli di Stato, sia pure impacchettata
in un insieme di condizioni, ha in sé, chiarissimo, il seme federale. Ed è possibile che un giorno venga ricordata come la prima pietra di una nuova e
vincente costruzione europea.
È possibile poi che la seconda pietra stia prendendo corpo attraverso il lavoro guidato dal Presidente del Consiglio Europeo Herman Van Rompuy in vista
di una «genuina unione economica e monetaria». Nell'interim report divulgato il 12 ottobre scorso, si dice apertamente che «rafforzare la disciplina non basta»
e che occorre sviluppare gradualmente una "fiscal capacity" per l'unione monetaria. Ebbene, è esattamente questo il perno della federalizzazione e chi
ha scritto il rapporto se ne rivela pienamente consapevole, quando spiega che "fiscal capacity" è la capacità di assorbire gli shocks asimmetrici che possono
colpire singoli Stati membri, nonché quella di facilitare riforme strutturali volte a migliorare la competitività e a promuovere la crescita. Compresa
- si aggiunge - la facoltà di indebitarsi sul mercato e di dar vita a un fondo comune per l'emissione di titoli a breve termine (i cosiddetti treasury
bills). Sono, né più né meno, le cose che dieci anni fa diversi economisti ci dissero che dovevamo fare per tenere in piedi l'euro e che si preferì non
ascoltare.
Devo confessare che ho letto questo documento con autentica emozione, perché trovare in esso proposte del genere mi ha dato netta la sensazione che la
dura lezione della realtà riesca finalmente a rimuovere quel grosso masso caduto con Maastricht sul processo di federalizzazione, deviandolo sulla strada
che ci ha portato ai guai e ai rimedi sbagliati dai quali siamo oggi assillati. Ce la faremo ora ad andare avanti in modo che, pietra dopo pietra, arrivi
il momento di poter battezzare l'edificio con il suo vero nome, Unione federale europea?
Qui l'emozione e il ritrovato ottimismo devono fare i conti con il profondo divario fra le risorgenti ragioni dell'integrazione in chiave federale e il
clima di sfiducia reciproca e nei confronti dell'Europa che si è diffuso tra i nostri cittadini. Come ho detto altre volte, solo la politica può colmare
il divario e tocca perciò ad essa trovare il coraggio di contrastare la sfiducia e di spiegare invece ai cittadini che è nel loro interesse dotarsi di
più Europa, proprio per sottrarsi ai guai in cui li ha cacciati ( o dai quali non è capace di toglierli) l'Europa sbagliata di oggi.
Ma per riuscirci le servirebbe qualche risultato che da subito riuscisse a cambiare le aspettative in meglio. L'Europa di oggi non può fare molto per l'economia
reale e non a caso non riesce ad occuparsene. Ma quel poco che può fare lo faccia, per esempio riportando le banche a raccogliere danaro non soltanto per
rafforzare se stesse, ma per prestarlo alle imprese (non furono inventate per questo?). Insomma, un piccolo segno di futuro, che lo renda credibile agli
occhi di chi oggi ha tante ragioni per non crederci più.
(dal Sole 24 Ore - 28 ottobre 2012)