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Quella crisi nascosta nel conflitto dei tre poteri

di Guido Rossi

Insieme con la gravità della crisi economica si va delineando un'ancor più grave crisi politico-istituzionale. La conflittualità tra i tre poteri della democrazia, il Legislativo, l'Esecutivo e il Giudiziario, si va accentuando, forse anche per via della quantità di elezioni generali, locali e primarie che si stanno avvicinando. Purtroppo con la conflittualità quei poteri si vanno l'un l'altro dissolvendo.

Almeno tre recenti inquietanti vicende inducono a doverosi commenti e meditazioni. La prima è la condanna a sei anni di reclusione, oltre alla sospensione permanente dai pubblici uffici e al risarcimento danni per 7,8 milioni di euro, da parte del Tribunale de L'Aquila nei confronti di sei scienziati e del responsabile della protezione civile. L'accusa è aver sottovalutato e conseguentemente rassicurato la popolazione de L'Aquila sulla gravità del terremoto del 6 aprile 2009, che causò la morte, oltre a molte altre, di 29 persone, che avrebbero potuto lasciare la città se correttamente e preventivamente avvertite. L'autorevole rivista scientifica anglosassone Nature ha dedicato a questa vicenda fin dal 2009 una serie di articoli con descrizioni precise e commenti diversi, anche relativi all'andamento del processo, fino alla pronunzia della sentenza.

La seconda e la terza vicenda riguardano invece l'attività legislativa su temi di straordinaria importanza per la democrazia, come la diffamazione e la corruzione. Una legge sulla diffamazione che preveda il carcere come sanzione non è certo indice né di giustizia né di civiltà, indipendentemente da ogni infuocata valutazione e discussione sul caso concreto che ne sta determinando una purtroppo ancora incerta riforma. La legge sulla corruzione, che invece è in dirittura d'arrivo, presenta nella sua attuale formulazione, all'art. 1, ben 83 disposizioni, e non par proprio sia in grado di soddisfare nemmeno il minimo normativo di un Paese che eccelle nella corruzione a livello mondiale. Infatti, la filosofia di base del disegno di legge governativo, ricolmo di deleghe al Governo per completarlo in tempi futuri, pare essere soprattutto quella di ingessare ulteriormente la Pubblica amministrazione in una serie caotica e inutile di modelli organizzativi, di commissioni competenti, di preposti e responsabili il cui evidente effetto è quello di togliere ogni rapidità alle attività che in altri Paesi sono efficientemente ispirate alla discrezionalità, laddove la corruzione risulta assai più rara. Che dire poi della corruzione fra privati, che permane, pur con qualche modifica, punibile a querela della persona offesa o, quel che è ancora più grave, la pervicace dimenticanza del reato di falso in bilancio, autentico strumento per stanare la corruzione? La burocratizzazione degli organismi di controllo e di repressione della corruzione finisce così, invece di colpirla, a diventare l'humus fertile per moltiplicarla.

Al cittadino incredulo resta da chiedersi se veramente è questa la legge sulla corruzione che "ci chiede l'Europa". Ma torniamo alla sentenza de L'Aquila. Su Nature, sono apparsi molti commenti, il più comune dei quali è che d'ora in poi qualunque scienziato si rifiuterà di far parte di commissioni sui rischi, con evidente danno per l'interesse pubblico o, contrariamente ad ogni ragionevole risultato scientifico, lancerà allarmi ingiustificati per difendersi da ipotetici attacchi. La sentenza, indipendentemente da ogni valutazione di merito, impossibile prima che se ne conoscano le motivazioni, necessita tuttavia di qualche riflessione per i suoi singolari trascinamenti mediatici.
Un noto scienziato a commento su Nature, l'ha paragonata al processo di Galileo, paragone ripreso poi dal Ministro Clini. L'abiura e il carcere di Galileo Galilei, così come il rogo a Giordano Bruno o la galera per 27 anni a Tommaso Campanella furono il tentativo della Chiesa di Clemente VIII e del Cardinale Bellarmino di consolidare il potere del Vaticano; ma, pur tragicamente, contribuirono alla vittoria della scienza e alla costruzione di un'Italia e un'Europa laiche, contro ogni tentativo di soffocare la dignità intellettuale e morale del sapere critico e scientifico.

La vicenda aquilana nasconde una realtà altrettanto inquietante a livello delle istituzioni democratiche. Le reazioni delle popolazioni - non solo de L'Aquila, queste travolte dal dolore - paghe di aver individuato i colpevoli, tradiscono una caduta di deriva indiscriminata del diritto penale e sanciscono il sopravvento dell'antica barbarica legge del taglione, cioè della vendetta. "Qualcuno deve pagare" diventa lo slogan di moda nelle moderne società civili, cosicché nella disintegrazione dei poteri dello stato democratico, una giustizia da anni delegittimata, conculcata e resa inefficiente dalla politica, trova necessariamente una sua legittimazione, non diversamente dagli altri poteri, nel consenso mediatico. La ricerca dell'autorevolezza attraverso i media spiega altresì l'ambiguo rapporto di qualche magistratura inquirente con stampa e tv, sovente troppo ben informate e pronte ad erigersi anch'esse a "custos morum", a custodi dei costumi, alimentando sospetti favoriti da opache conoscenze di intercettazioni, spesso irrilevanti e ignote anche agli interessati. E così continua un autoesaltante e indisturbato e compiaciuto gioco all'insinuazione, o all'insulto, al limite della calunnia e della diffamazione. La ricerca del consenso mediatico è ormai divenuta uno dei più diffusi e sottili mali delle democrazie: è l'apparire che diventa meglio dell'essere, sì che nell'autoesaltazione può anche pericolosamente coinvolgere le istituzioni. Sarà bene allora ricordare le parole di un grande italiano, Gaetano Salvemini, quando scriveva: «Un altro dei punti deboli dell'odierna democrazia è la stampa … Ogni cittadino dovrebbe avere il diritto di citare in giudizio un giornale per aver pubblicato notizie in sé false (indipendentemente dalla calunnia) ed anche per la soppressione di notizie di pubblico interesse». Forse per i giornalisti che si erigono a giudici, non per fare informazione ma per insinuare, così come per quei giudici che trasmettono o lasciano trasmettere, notizie riservate agli operatori dei media, per ingraziarseli, dovrebbe valere la riprovazione di vergogna.

C'è invece da sperare che tutte le prossime incombenti elezioni non rappresentino "una rivoluzione omeopatica", come temeva Salvemini. Ma così non sarà solo se i cittadini rifiuteranno di accettare che qualcuno imponga loro come devono votare e per chi, quasi che la lotta democratica non conti. A me pare tuttavia che i segni del risveglio, contro una omologazione qualunquista, così come negli altri momenti difficili della vita del Paese, siano evidenti.

(da Il Sole 24 Ore - 28 ottobre 2012)

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