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Alfano, il vincolo della lealtà e i dubbi dopo la discesa in campo del Cavaliere

di Massimo Franco

Il segretario del Pdl avrebbe evitato spaccature anche perché non voleva "finizzarsi"

Un vescovo ha domandato ad Angelino Alfano addirittura perché non avesse mandato al diavolo Silvio Berlusconi alla notizia della ricandidatura a palazzo Chigi. Ma il segretario del Pdl aveva due ragioni: una politica e una personale. Quella politica è che non voleva «finizzarsi». Traduzione: essere percepito dai suoi come un altro Gianfranco Fini, il presidente della Camera ed ex alleato del Cavaliere diventato, agli occhi del Pdl, il «traditore»; e nemmeno condividerne il destino di isolamento all'interno del centrodestra. Meglio vittima che carnefice, è la sua tesi. Quella personale è che si sente comunque un beneficiato. Dunque, la sua coscienza gli impediva di rompere con chi lo aveva promosso ministro della Giustizia a 37 anni, e poi gli aveva consegnato (seppure, si è visto, solo virtualmente) le chiavi del partito.

Ma dire che Alfano sia entusiasta della «ridiscesa in campo» berlusconiana sarebbe una bugia. E i molti sms di solidarietà e insieme di rimprovero per non essersi ribellato, arrivatigli da Oltre Tevere, fanno capire quanto poco indolore sarà il protagonismo di ritorno del Cavaliere. Da soldato disciplinato, il segretario combatterà in campagna elettorale accanto al suo leader. Eppure non nasconde di presentire una batosta. E non perché Berlusconi non possa rimontare abbastanza nonostante il suo impegno diretto: il problema è proprio la sua decisione, in realtà non ancora ufficializzata, di correre per palazzo Chigi. Il segretario del Pdl ha spiegato ai suoi interlocutori di considerarlo un errore al quale l'ex padre-padrone del centrodestra è stato spinto da un nucleo di duri e puri che in realtà il corpo del partito vede solo come un manipolo di estranei opportunisti.

E prevede contraccolpi politici catastrofici. Chi ha parlato con Alfano in queste ore non lo sente solo amareggiato col suo mentore politico: avverte una sfiducia cosmica nelle possibilità di una vittoria. Dietro la verità ufficiale del traguardo del 30 per cento, si racconta quella più prosaica di un Pdl timoroso di non arrivare neppure al 20; zavorrato e non esaltato dall'ennesima epifania di Berlusconi. E costretto a ingoiare e spiegare all'opinione pubblica un voltafaccia che porterà a rivedere tutte le parole d'ordine sul rinnovamento, sulla democrazia interna, sul ricambio della classe dirigente. Insomma, un brusco e decadente ritorno al sistema tolemaico dopo un timido assaggio di Copernico.

E pensare che Alfano era convinto di essersi quasi assicurato se non il sostegno, l'attenzione benevola di organizzazioni come la Coldiretti, la Confederazione delle Cooperative, spezzoni della Cisl. Ancora nelle ultime settimane sembrava convinto di avere l'appoggio silenzioso dei vertici della Conferenza episcopale italiana e della Segreteria di Stato vaticana: un piccolo miracolo, viste le relazioni agrodolci tra le due realtà della Chiesa. L'idea di uno schieramento moderato depurato dal Cavaliere e cementato dall'intesa fra un Pdl post-berlusconiano e l'Udc di Pier Ferdinando Casini rassicurava le gerarchie cattoliche ed i loro referenti: anche nel caso in cui alla fine si fosse dovuti arrivare ad una coalizione di unità nazionale col Pd dopo il voto del 2013.

D'altronde, ad Alfano era stato chiesto di arginare le spinte centrifughe del Pdl, e bene o male ci era riuscito; di aprire a Casini, e l'aveva fatto all'ombra del governo tecnico di Mario Monti; di organizzare le primarie per la candidatura a palazzo Chigi, e anche quel percorso pareva avviato. Adesso, invece, vede un movimento insidiato a destra da chi, dopo avere sancito il fallimento della «rivoluzione liberale» del Cavaliere, punta a staccarsene. Indovina nelle manovre dell'ex ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, un'altra operazione di smarcamento. Ma quello che il segretario del Pdl teme di più è la grande rivincita centrista di Casini.

Il leader dell'Udc ha capito immediatamente che il ritorno di Berlusconi può sospingere molti voti moderati verso di lui; e che, per quanto diviso e disorientato, al mondo cattolico il Cavaliere ormai è indigesto. La sua ricandidatura viene percepita da una parte della nomenklatura del Pdl come un sussulto leaderistico che, questo è il timore inconfessato, può diventare un regalo insperato a tutti gli avversari. Alfano sa, e in privato qualche volta lo confessa, che l'esito del tentativo di rimonta per paradosso accelererà la saldatura di un asse Pd-Udc presentato come inevitabile per impedire il ritorno al passato berlusconiano.

D'altronde, si fa notare come la notizia della ricandidatura, anticipata dal Corriere , non abbia scatenato solo entusiasmi, ma collezionato silenzi e cautele significative nel Pdl. Chi ha incontrato Alfano nelle ultime ore lo descrive preoccupato per le domande che oggi gli farà il presidente del Partito popolare europeo, Wilfried Martens, col quale ha in programma un incontro a Sorrento. Lo sconcerto di alcuni alleati europei dell'Italia per il ritorno sulla scena di un Berlusconi euroscettico o filo-Monti a intermittenza, è un dato di fatto. E l'evocazione di un «cerchio magico» intorno al Cavaliere, espressione mutuata da quella che indicava i fedelissimi del capo leghista Umberto Bossi, come minimo porta sfortuna.

Il «cerchio magico» è stato l'inizio della fine del leader dei lumbard. E nel Pdl additano la parabola bossiana come qualcosa che Berlusconi ha sempre seguito col timore oscuro di subirne una simile. Spiegano anche così la sua voglia di «esserci» a tutti i costi, pur sapendo che in autunno arriverà anche la sentenza sul caso Ruby, la minorenne marocchina per la quale l'ex premier è sotto processo. Il partito, come al solito, lo seguirà. Alfano assicura a tutti che non ci saranno spaccature né fughe. A una condizione, però: che Berlusconi non chieda al partito di fare da scudo a personaggi del «cerchio magico» ritenuti indifendibili e politicamente dannosi. In quel caso sì che potrebbe succedere qualcosa di imprevedibile. Ma la questione, spiegano ai vertici del Pdl, non sarebbe più politica: riguarderebbe la difesa della propria dignità personale.

(dal Corriere della Sera - ediz. del 15 luglio 2012)

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