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Anche Dublino si piega a Frau Angela

di ENZO BETTIZA

Strano, stranissimo, questo gelido sì referendario di Dublino. Sino all’ultimo era stato difficile prevedere se gli elettori irlandesi, noti per i loro plebisciti contrari a regole e raccomandazioni della Commissione europea, avrebbero accettato o ripudiato il patto di austerità che i virtuosi notai di Berlino preferiscono connotare col termine «trattato di stabilità fiscale».

L’amara medicina, già imposta alla Grecia e sospesa ora anche sulla Spagna, è stata ingoiata a denti stretti dall’Irlanda per poter accedere ai fondi destinati da Bruxelles al salvataggio delle sue banche disastrate. Stavolta la «tigre celtica», che negli anni passati aveva goduto di un privilegiato status economico in seno all’Ue, non ha tirato fuori gli artigli: si è piegata al giogo di una crisi generalizzata.

Proprio venerdì, giorno del referendum, la crisi ha toccato il culmine con il crollo delle Borse europee, lo sconquasso di Wall Street, le statistiche sulla disoccupazione, l’ira del Presidente americano che rischierebbe di perdere la rielezione a causa del contagio che un’Europa malata e inane diffonde nel mondo.

Su questo sfondo generale, alterato dal panico, che ormai coinvolge l’intero Occidente, americani compresi, l’esito del sì di Dublino alla camicia di forza dell’austerità è apparso simile a una sconfitta piuttosto che alla «vittoria» solennemente declamata dal governo di Dublino.

La vera vincitrice è apparsa Angela Merkel, criticata da molti, ma non dal primo ministro dublinese Enda Kenny il quale, a urne appena chiuse, si è precipitato a comunicare per telefono alla cancelliera il consenso ottenuto dalla prova referendaria. Si potrebbe dire, esagerando ma non troppo, che una sostanziosa quota di sovranità irlandese è finita così in mani tedesche. Non si esagera invece sostenendo che il risultato del voto, nonostante la comparsa di un 60per cento maggioritario, non è stato affatto nitido e men che meno entusiastico; l'Irlanda ne è uscita spaccata a metà; più che entusiasmo c'è stata rassegnazione per le strade. I quartieri operai e impoveriti dalla crisi hanno votato per il più solido partito d’opposizione, contrario alla politica del rigore, cioè lo storico Sinn Fein, un tempo braccio politico dell’Ira e guidato tuttora dal suo capo storico Gerry Adams.

«Il governo ossequiente a Bruxelles - ha commentato Adams - si è speso in termini impegnativi sul salvataggio delle banche, sulla crescita e la promessa di alleggerire la pressione delle politiche di austerità. Noi continueremo a batterci perché queste promesse siano puntualmente rispettate, non dimenticando che parte dei voti a favore sono stati dati con animo fiacco e molto riluttante». Il ceto medio avrebbe votato, non certo per la contabilità punitiva alla tedesca, ma essenzialmente per i fondi europei centellinati ai Paesi in dissesto.

In questo senso il referendum dell’Irlanda, Paese uso a sottoporre al voto popolare ogni importante decisione di Bruxelles, offre, più che mai oggi, una spia visibile o quanto meno uno spaccato trasversale su umori e travagli di altri Stati europei. Taluni in difficoltà catastrofica, come la Grecia, praticamente priva di un governo legittimo; altri assillati da minacciosi chiaroscuri come la Spagna del laconico Rajoy che non sa più che fare; altri ancora come la Francia del trapezista Hollande, che s’aggrappa con una mano incerta alla Germania e insieme tende una sinistra cooperativa all’Italia in faticosa risalita.

Fra un paio di settimane il voto di Atene ci dirà se l’esecutivo di sinistra, dominato dall’enigmatico partito Syriza, deciderà di soccombere con la vecchia dracma o sopravvivere con l’euro detestato. Fra pochi giorni, il 10 giugno, sapremo invece che tipo di esecutivo si darà la Francia dopo il voto per la nuova Assemblea nazionale. Non è da escludere che il partito socialista possa perdere la maggioranza, il che costringerebbe Hollande a scegliere tra due opzioni difficili per non dire egualmente insostenibili: o l’incubo di una coabitazione con l’Ump gollista, che finirebbe per paralizzare prima o poi il governo, oppure l’azzardo di una coalizione ambigua con il Front de Gauche, che porterebbe il governo a scontrarsi fatalmente con molte proposte di Bruxelles. Insomma, una Francia quasi impotente in un caso come nell’altro, e ciò proprio nel momento in cui Hollande starà cercando di riequilibrarne il peso e il prestigio rispetto al preponderante dinamismo della Germania.

Quale futuro, in definitiva, può aspettarsi una simile Europa disunita, dilaniata dagli strappi della moneta unica, incapace di considerare le potenzialità unitarie che nessuno, tranne alcuni personaggi di punta del mondo economico, sembra più in grado di scorgere? Rassegnarsi al peggio? Prendere sul serio il monito di un qualificato esponente della Commissione di Bruxelles, Olli Rehn, che agita lo spettro di una possibile «disintegrazione» dell’eurozona? Penso sarebbe meglio e saggio dare più ascolto alle parole di due banchieri colti quali Ignazio Visco e Mario Draghi. Nei loro ultimi interventi pubblici hanno voluto far capire che, nel suo insieme, la zona euro è ancora la più ricca del mondo con 300 milioni di abitanti e 20 milioni di imprese. Un’area che potrà riscattarsi dalla crisi solo se riuscirà a compattarsi in uno Stato vero. Uno Stato federale. Uno Stato alfine in grado di mutualizzare i debiti, superare i deficit, scarnificare la contabilità da Pil, capace di creare politiche fiscali comuni e non da codice penale. Lo ha detto bene Visco: «Dobbiamo definire un percorso che abbia nell’unione politica il suo traguardo finale».

È importante che a ribadirlo sia un uomo di banca, non un cantore dell’europeismo di maniera. Il percorso, se lo si farà, andrà fatto aggirando gli ostacoli che al suo svolgimento porrà la temporanea presenza a Berlino di una luterana complessata, proveniente dalla Germania dell’Est, euroscettica più o meno involontaria la quale, secondo l’ex ministro Fischer e l’ex cancelliere Schroeder, vorrebbe distruggere per la terza volta il vecchio continente: non più con le armi, ma con i callidi libri mastri e pentecostali della Bundesbank.

(da La Stampa - ediz. del 3 giugno 2012)

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