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Il Giorno del Ricordo - per conservare e rinnovare la memoria di una tragedia per troppo tempo dimenticata

da scritti di Guido Rumici

Con la Legge 30 marzo 2004 n. 92, «La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale Giorno del Ricordo al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale».
La data del 10 Febbraio è stata scelta per ricordare il giorno in cui a Parigi, nel 1947, venne firmato il Trattato di pace in conseguenza del quale venne sancita la cessione di buona parte della Venezia Giulia alla Jugoslavia di Tito e l’abbandono di numerose città della sponda orientale dell’Adriatico dove l’elemento italiano era percentualmente maggioritario.

LA SITUAZIONE GEO-POLITICA ATTUALE

La situazione geopolitica attuale dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia deriva dalla dissoluzione della Jugoslavia, avvenuta gradualmente a partire dal 1991, con la conseguente nascita delle nuove Repubbliche di Slovenia e di Croazia, le quali si dichiararono Stati sovrani ed indipendenti il 25 giugno 1991, ma ottennero il riconoscimento della comunità internazionale solo l’anno successivo. L’Italia riconobbe ufficialmente le due nuove Repubbliche il 15 gennaio 1992. La maggior parte dei territori ex italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia appartiene oggi alla Croazia, mentre solo una piccola parte dell’Istria settentrionale è sotto la sovranità slovena. La nascita dei due nuovi Paesi ha perciò portato alla creazione di un nuovo confine in Istria, dividendo in due distinti tronconi un territorio che ha avuto per secoli una storia comune.

I. L’EPOCA ROMANA

Le regioni situate intorno alla fascia costiera dell’Adriatico settentrionale ed orientale iniziarono ad essere abitate in maniera stanziale diverse migliaia di anni prima di Cristo. La posizione geografica dell’area altoadriatica, a cavallo tra l’Italia e la penisola balcanica, rappresentò un punto d’incontro tra genti e culture diverse che nel corso dei secoli si sono stratificate sul territorio. La presenza, in epoca preromana, di popolazioni paleovenete, nonché degli Istri, dei Giapidi, dei Celti, degli Illiri e dei Liburni contribuì a determinare la peculiarità della zona.

Roma si affacciò gradualmente nell’Adriatico settentrionale ed orientale verso il III secolo a.C., con i primi contatti con le popolazioni locali degli Istri e dei Liburni. Nel 221 a.C. una prima spedizione militare romana giunse in Istria e nei decenni successivi, con altre campagne di guerra (le più importanti nel 178177 a.C.), la conquista dell’intera regione venne completata.

La fondazione di Aquileia (181 a.C.) e delle successive colonie di Tergeste (Trieste) e di Pola posero le basi per la profonda romanizzazione dell’intera Italia nord-orientale, che ai tempi di Augusto venne nominata «Decima Regio Venetia et Histria». La Dalmazia è provincia romana a pieno titolo dal 33 a.C. I traffici ed i commerci tra l’Istria e le altre terre romane divennero via via fiorenti e ben presto gli abitanti della costa settentrionale ed orientale dell’Adriatico assorbirono gli usi, le consuetudini, i culti e la lingua di Roma.

Arena di Pola

Notevole tracce architettoniche della presenza romana sono visibili ancora oggi in Istria, come l’Arena, il Tempio di Augusto, Porta Gemina e l’Arco dei Sergi a Pola, l’Arco Romano a Fiume e in Dalmazia con il foro di Zara, con le imponenti rovine di Salona e con il Palazzo di Diocleziano a Spalato.

II. L’EPOCA MEDIEVALE

Caduto nel 476 d. C. l’Impero Romano d’Occidente, l’Istria finì, come gran parte dell’Italia, sotto i Goti di Teodorico. Essa fu poi bizantina dal 538 al 778, quando subentrarono i Franchi di Carlo Magno. Nel periodo successivo la penisola istriana si configurò come un’area di scambio e di incontro tra il mondo mediterraneo e quello alpino e centroeuropeo. Nei secoli a cavallo del Mille le cittadine della costa occidentale dell’Istria, che nel tempo si costituirono in Comuni, dovettero, oltre che difendersi dalle incursioni dei pirati saraceni e narentani, confrontarsi politicamente con il crescente potere di Venezia (che diventò dominante dopo l’anno Mille con la campagna navale del doge Pietro Orseolo II) e con le varie casate germaniche feudatarie dell’Impero.

La caduta, negli anni 1420-1421, del potere temporale del patriarcato di Aquileia, stabilizzò la situazione politica dell’Istria, ripartita da quell’epoca tra un predominante dominio veneziano nella parte costiera ed occidentale e quello imperiale asburgico esercitato nella parte interna ed orientale della penisola.

Fiume, durante il Medioevo, fu un piccolo borgo marittimo posto ai limiti del feudo e poi capitanato di Castua, piccola signoria acquisita anch’essa dagli Asburgo alla fine del Quattrocento. La città si sviluppò, nei secoli successivi, acquisendo una crescente importanza commerciale.

La Dalmazia subì l’invasione slava tra i secoli VI e VII d. C., riducendosi alle sole città della costa ed alle isole, dove ci fu una certa continuità politica bizantina fino al XII secolo. Le città distrutte furono ricostruite in luoghi più sicuri. Così fu per Salona, la seconda città dell’Adriatico, distrutta nel 614, che diede vita a Spalato nel vicino palazzo di Diocleziano.

Attorno all’anno Mille anche i Comuni dalmati si svilupparono come nella dirimpettaia penisola italiana e, per tutelare la propria autonomia, si destreggiarono tra la Repubblica di Venezia e il Regno di Ungheria (che aveva conquistato la Croazia nel 1102), che prevalse solo dal 1358 al 1409. Fra quest’ultimo anno e il 1432 i veneziani acquisirono in maniera stabile la costa e le isole dalmate, attraverso gli atti di dedizione delle città, ad eccezione della Repubblica di Ragusa, che restò indipendente fino al 1808.

Durante la seconda metà del Quattrocento, alla controparte ungherese subentrò quella ottomana, che cercava di raggiungere il mare per invadere poi la penisola italiana. La lotta tra Venezia e l’impero turco durò più secoli e le città dalmate – fortificate dai migliori architetti del Rinascimento – rappresentarono il vero antemurale della Cristianità. Alla battaglia di Lepanto presero parte numerose loro galee. Nel frattempo Venezia accoglieva nei suoi possedimenti popolazioni cristiane di origine slava, che fuggivano le persecuzioni ottomane. Nel Settecento il conflitto si attenuò, la Repubblica veneta acquisì anche territori della Dalmazia interna e vi introdusse i primi elementi di una riforma agraria.

III. L’EPOCA VENEZIANA

Fra il IX e il X secolo d. C. il nascente Stato veneziano inizia a far sentire la sua influenza sulle coste orientali dell’Adriatico. La potenza di Venezia fu prevalentemente commerciale e le coste dell’Istria e della Dalmazia divennero ben presto indispensabili per i suoi traffici mercantili verso il Levante. Venezia estese gradualmente il suo dominio alle principali località dell’Adriatico Orientale e dell’interno dell’Istria. Molte cittadine dapprima furono obbligate ad un vero vincolo di vassallaggio (come Capodistria nel 932); poi, successivamente, prestarono giuramento di fidelitas verso la Serenissima (come Pola nel 1145). Nel tempo il rapporto tra Venezia e le città della costa istriana assunse la forma di protettorato, che si estese anche verso le zone dell’entroterra.

Veduta dall'alto di Rovigno

Nel 1267 la dedizione di Parenzo sancì l’ulteriore penetrazione politica e militare di Venezia in Istria, che si estese ancor di più nel 1420 con la dedizione di Albona, Muggia e Fianona. La Serenissima governò l’Istria e la Dalmazia per altri quattro secoli, fino alla caduta della Repubblica e al trattato di Campoformido (1797). I segni della presenza veneziana sono ancora oggi evidenti in tutto l’Arco Adriatico: i palazzi pubblici e privati, le piazze e le calli, le fortificazioni e il Leone di San Marco è ancora visibile in molte località istriane e dalmate.

IV. IL PERIODO AUSTROUNGARICO (1797-1918)

Dopo la pace di Campoformido (siglata tra Napoleone e gli Asburgo), che segnò la fine della secolare presenza veneziana in Istria e in Dalmazia, iniziò l’epoca austriaca, che andò dal giugno 1797 all’ottobre 1918, con una piccola parentesi napoleonica tra il 1806 ed il 1813.

L’arrivo degli austriaci in Istria, peraltro già presenti nella parte più interna della penisola, portò diverse trasformazioni sociali ed amministrative. Il centro di gravità della regione si spostò da Venezia a Trieste, che ne ereditò tutte le funzioni. Dopo la battaglia di Austerlitz, nell’ambito della pace di Presburgo (1805), il Veneto, l’Istria e la Dalmazia passarono dal dominio asburgico a quello di Napoleone, imperatore dei Francesi. Nel marzo 1806 Napoleone aggregò ufficialmente l’Istria e la Dalmazia al Regno d’Italia. Dopo alterne vicende, i francesi rimasero sulla costa orientale dell’Adriatico sino al 1813, quando gli austriaci ripresero il controllo della penisola istriana e della costa dalmata.

La nuova amministrazione asburgica portò un’efficiente burocrazia e un senso dello Stato che si innestò sul substrato civile e culturale lasciato dalla Serenissima Repubblica di Venezia. Verso la metà del secolo XIX divenne tuttavia irreversibile la presa di coscienza nazionale di strati sempre più ampi delle popolazioni italiane, slovene e croate residenti all’interno dell’impero asburgico, che nel 1867 si trasformò nella duplice monarchia austro-ungarica.

I fatti del 1848-1849, la nascita del Regno d’Italia (1861), la terza guerra d’indipendenza, la mutata politica di Vienna verso le diverse nazionalità, furono alcuni dei fattori che contribuirono a creare tensioni tra le etnie italiane, croate e slovene, in precedenza vissute in un clima di tranquilla convivenza. Di fatto, nella seconda metà dell’Ottocento, le lotte nazionali riguardarono soprattutto le élite politiche e culturali italiane e slave mentre, in buona parte della popolazione istriana e dalmata, il rispetto dell’autorità costituita e dello Stato, il culto della giustizia, l’attaccamento alle tradizioni locali e religiose attutirono il livello dello scontro che stava iniziando a delinearsi.

V. LA PRIMA GUERRA MONDIALE

La proclamazione del Regno d’Italia (1861) esercitò un forte richiamo culturale ed emotivo sulle popolazioni di lingua italiana della Venezia Giulia e della Dalmazia e nei decenni successivi si andò sempre più manifestando una decisa volontà politica separatistica (l’Irredentismo) nei confronti dell’Austria. I nazionalisti italiani, da ambo i lati del confine italo-austriaco, rivendicheranno le zone abitate da secoli da popolazioni di lingua veneta, ma queste aspirazioni contrasteranno con le analoghe rivendicazioni di matrice slava. Le popolazioni slovene e croate furono però considerate dalle autorità austroungariche più leali di quelle italiane, probabilmente per la mancanza di un altro Stato di riferimento cui volgere lo sguardo. Diversi provvedimenti emanati da Vienna in campo scolastico o amministrativo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento furono interpretati come vessatori nei confronti dell’etnia italiana poiché si riteneva fossero stati adottati per favorire il più fidato elemento slavo.

Con il patto di Londra (26 aprile 1915) le potenze dell’Intesa (Francia, Inghilterra e Russia) promisero all’Italia che se fosse intervenuta militarmente al loro fianco avrebbe avuto garantita, a guerra finita, l’annessione del Trentino, dell’Alto Adige, di Trieste, della Contea di Gorizia e di Gradisca, dell’intera Istria con le isole di Cherso e Lussino, di una parte della Dalmazia (con Zara, Sebenico e le isole di Lissa, Lesina e Curzola), oltre ad alcuni altri territori e possedimenti.

L’Italia entrò in guerra il 24 maggio 1915 e, dopo tre anni di duro e sanguinoso conflitto, riuscì a contribuire alla vittoria delle potenze dell’Intesa. Tra le centinaia di migliaia di morti caduti al fronte, non mancarono diversi di quei volontari irredenti giuliani che avevano disertato dalle fila austriache per raggiungere le linee italiane. Tra tanti nomi, quelli di Nazario Sauro (da Capodistria), di Fabio Filzi (da Pisino d’Istria) e di Francesco Rismondo (da Spalato), catturati dagli austroungarici e condannati a morte per diserzione, sono stati spesso ricordati come simboli della dedizione dei giuliani alla lotta nazionale italiana.

La guerra si concluse sul fronte italiano con l’Armistizio di Villa Giusti del 3 novembre 1918.

VI. LA VENEZIA GIULIA ALLA FINE DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE

Le successive trattative per il confine orientale d’Italia si svolsero a Versailles a partire dal gennaio 1919. La soluzione di quella che fu definita la «Questione adriatica» non fu facile perché diverse erano le aspettative delle varie Potenze presenti alla Conferenza di pace. L’Italia chiese sin da subito il rispetto di quanto promesso da patto di Londra e, in aggiunta, la città di Fiume (non compresa nel patto), rivendicata in base al diritto di autodecisione dei popoli, in quanto il censimento del 1919 aveva rivelato fra gli abitanti una netta maggioranza italiana.

Chiesa di San Vito di Fiume

L’atteggiamento delle altre Potenze fu di netto rifiuto per quest’ultima richiesta italiana e dopo mesi di discussioni, si giunse a trattative dirette tra il Regno d’Italia ed il nuovo soggetto internazionale che era nato ad oriente dopo la dissoluzione dell’impero austroungarico, il nuovo Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (la futura Jugoslavia).

Il 12 novembre 1920 i Governi italiano e jugoslavo firmarono a Rapallo un Trattato con cui i confini tra i due Paesi venivano fissati in maniera consensuale: l’Italia otteneva la quasi totalità della Venezia Giulia (ma non Fiume), mentre rinunciava a quasi tutta la Dalmazia (tranne Zara e l’isola di Lagosta).

La città di Fiume divenne Stato Libero e il Governo italiano dovette, in rispetto al trattato, intervenire militarmente contro i legionari di Gabriele D’Annunzio, che aveva occupato Fiume sin dal settembre 1919. D’Annunzio aveva proclamato l’annessione della città all’Italia e instaurato la Reggenza del Carnaro, per cui la nascita dello Stato Libero di Fiume fu accolta male dall’opinione pubblica italiana che già aveva dovuto subire la rinuncia alla Dalmazia. I successivi buoni rapporti tra i Governi italiano e jugoslavo, unitamente con la difficile situazione politica del nuovo Stato fiumano, permisero tuttavia nel gennaio 1924 di giungere ad una spartizione di Fiume tra Italia e Jugoslavia. L’Italia si annesse la città di Fiume, mentre il Porto Baros ed una parte dell’entroterra fu assegnata alla Jugoslavia.

VII. IL PERIODO FASCISTA

I nuovi confini orientali d’Italia, fissati dai trattati del 1920 e del 1924, avevano determinato l’esistenza all’interno del Regno di un elevato numero di cittadini di etnia slovena e croata, concentrati i primi soprattutto nelle province di Gorizia e di Trieste, ed i secondi in quelle di Pola, Fiume e Zara. L’amministrazione italiana dell’immediato primo dopoguerra evidenziò sin da subito una notevole impreparazione nell’affrontare i problemi specifici della Venezia Giulia e soprattutto la delicata questione della presenza di consistenti nuclei di minoranze linguistiche autoctone.

L’avvento del fascismo in Italia portò poi rapidamente ad un peggioramento della situazione degli sloveni e dei croati del confine orientale. In breve tempo il regime fascista varò numerosi provvedimenti tesi alla snazionalizzazione delle minoranze presenti sul territorio italiano, in un clima di profonda intolleranza inasprito dalle misure totalitarie della dittatura. Le scuole di lingua slovena e croata vennero italianizzate e furono soppresse centinaia di associazioni culturali, sportive, giovanili, sociali ed economiche delle due minoranze che erano state invece tollerate subito dopo la fine della Prima guerra mondiale.

Va peraltro chiarito che nella medesima epoca la maggior parte degli Stati europei dimostrò scarsissimo rispetto per i diritti delle minoranze etniche presenti nel proprio territorio, quando addirittura non si cercò di eliminarli. La stessa minoranza italiana presente in Jugoslavia non ebbe vita facile e dalle città costiere della Dalmazia si accentuò l’esodo di italiani che era iniziato con il Trattato di Rapallo. In Italia anche la stampa periodica slovena e croata venne posta fuori legge e le minoranze slovene e croate cessarono di esistere come forze politiche e non poterono in alcun modo essere rappresentate. Tutte queste misure repressive non raggiunsero peraltro i risultati sperati dalle autorità fasciste e le popolazioni slovene e croate della Venezia Giulia rimasero compattamente insediate nel loro territorio al punto che, secondo un censimento segreto del 1936, il numero degli sloveni e croati presenti in regione non era per nulla diminuito rispetto al 1921.

VIII. LA SECONDA GUERRA MONDIALE

Con l’ingresso in guerra dell’Italia a fianco della Germania nazista e, più in particolare, con l’invasione della Jugoslavia da parte delle forze dell’Asse nell’aprile del 1941, i territori del confine orientale d’Italia si trovarono coinvolti direttamente nel conflitto che di lì a poco sarebbe diventato mondiale.

L’Italia era scesa in campo già nel giugno del 1940, ma gli echi della guerra, che sembrava lontana, avevano toccato per diversi mesi solo marginalmente la popolazione della Venezia Giulia, data la posizione di neutralità che lo Stato jugoslavo aveva mantenuto fino a quel momento. Il 6 aprile 1941 le truppe tedesche iniziarono l’attacco alla Jugoslavia, seguite in breve dalle altre forze dell’Asse, soprattutto italiane ed ungheresi.

L’esercito jugoslavo, attaccato da più fronti, si dissolse rapidamente. Il giorno 10 aprile Ante Pavelic, capo degli «ustascia» (movimento politico croato filo-fascista), proclamò l’indipendenza della Croazia, con un atto che segnava in modo determinante il crollo della Jugoslavia. La Jugoslavia dovette capitolare e l’atto di resa senza condizioni venne firmato a Belgrado la sera del 17 aprile. Re Pietro II fuggì, assieme al suo governo, in esilio a Londra.

L’Italia si annesse una buona parte della costa dalmata e delle relative isole, costituendo il Governatorato della Dalmazia (con Sebenico, Traù, Spalato e Cattaro), riuscendo ad ottenere il controllo delle sponde orientali del Mare Adriatico. L’Italia incorporò inoltre la porzione della Slovenia che confinava con la parte orientale della Venezia Giulia, con Lubiana, un’area abitata interamente da sloveni.

Le truppe dell’Asse si limitarono peraltro ad assumere il controllo delle principali arterie stradali, disinteressandosi al resto del territorio prevalentemente montuoso. In tal modo numerosi reparti dell’esercito jugoslavo, sebbene sconfitti, ebbero l’opportunità di darsi alla macchia, conservando buona parte del loro armamento e preparandosi a dar vita ai primi nuclei di resistenza organizzata. In breve tempo la resistenza si organizzò in modo imponente, in misura ben superiore a quella degli altri Paesi europei occupati dalle Potenze dell’Asse, anche se la lotta divenne subito convulsa per le fratture delineatesi sin dall’inizio tra forze che avevano teoricamente gli identici nemici. I principali movimenti resistenziali si catalizzarono attorno alle due figure carismatiche del colonnello Draža Mihajlovic, capo dell’Armata Nazionale jugoslava, fedele a Re Pietro II ed al suo Governo in esilio a Londra, e di Josip Broz Tito, segretario del Partito Comunista Jugoslavo (P.C.J.) che puntava a creare uno Stato comunista sul modello sovietico.

I sabotaggi e gli attentati contro gli occupanti divennero più frequenti e, parallelamente, le operazioni di controguerriglia colpirono strati più ampi di popolazione civile, sospettata, a torto o a ragione, di favorire la resistenza. Incendi di villaggi, fucilazioni e deportazioni di civili produssero paura e sgomento e alimentarono l’odio e il risentimento nei confronti dei militari italiani e tedeschi, inducendo molte persone a schierarsi con i partigiani. Va aggiunto che di pari passo con la radicalizzazione della lotta partigiana e della sua estensione a zone prima tranquille, vi fu un analogo e parallelo aumento del tasso di collaborazionismo verso le truppe dell’Asse delle popolazioni locali, con la formazioni di milizie di volontari anticomunisti che parteciparono attivamente alla repressione del movimento partigiano. I militari italiani presenti nell’area balcanica si trovarono pertanto ad affrontare una guerra che fu veramente “globale”, nel senso che non vi furono prime linee o retrovie come in un conflitto classico, dato che in ogni luogo poteva esserci un’imboscata. IX. L’ARMISTIZIO ITALIANO (8 settembre 1943) Il clima nella Venezia Giulia nei primi giorni del settembre 1943 era del tutto simile a quello del resto d’Italia. Buona parte della popolazione aveva sopportato con rassegnazione i tre lunghi anni di guerra che avevano portato lutti, sofferenze e privazioni e sperava che, dopo la caduta del fascismo (25 luglio 1943), il conflitto si sarebbe concluso quanto prima. Per tale motivo la notizia dell’armistizio italiano, comunicata per radio la sera del 8 settembre 1943, venne accolta senza particolari reazioni di entusiasmo. La presenza tedesca da un lato e l’esistenza di un movimento di resistenza capeggiato dall’elemento slavo induceva a fare i conti con una realtà del tutto incerta. Contemporaneamente i reparti militari italiani di stanza nella Venezia Giulia, in assenza di contatti e collegamenti con i comandi superiori, iniziarono a sbandarsi davanti all’ipotesi dell’aggressione tedesca, dando inizio a quello sfaldamento generale delle forze armate che in pochi giorni portò al collasso totale dell’apparato statale italiano sul territorio.

X. LE VIOLENZE DELL’AUTUNNO 1943

La dissoluzione dello Stato italiano nella Venezia Giulia fu rapidissima e molti paesi e villaggi della regione si trovarono improvvisamente in balìa di se stessi e dei primi venuti. Le principali città giuliane (Trieste, Gorizia, Pola e Fiume) furono occupate subito dopo l’armistizio da colonne motorizzate tedesche che puntarono al controllo delle vie di comunicazione, delle infrastrutture portuali e ferroviarie e al disarmo dei presidi italiani che, in linea di massima, non opposero resistenza. In diversi paesi dell’Istria invece, dove i tedeschi non erano ancora giunti, si verificò un vuoto di potere. In taluni casi si formarono comitati di salute pubblica o comitati civici composti da personalità non compromesse con il passato regime fascista. Nella parte interna dell’Istria comparvero di colpo i partigiani comunisti di Tito che iniziarono ad occupare quelle località dove non c’era più traccia delle forze dell’ordine del Regno d’Italia ed instaurarono i «poteri popolari» gestiti dai Comitati Popolare di Liberazione (C.P.L.) orientati verso il Partito Comunista Jugoslavo (P.C.J.). Parallelamente diversi reparti partigiani dell’Esercito Popolare di Liberazione jugoslavo varcarono il vecchio confine italo-jugoslavo raggiungendo diverse località della penisola istriana e l’Isontino. La situazione divenne caotica, in un clima di crescente anarchia e di violenza diffusa. Vennero saccheggiati magazzini, negozi e dati alle fiamme diversi archivi comunali.

Ci furono pestaggi e violenze non solo a carico di coloro che si erano compromessi con il passato regime fascista, ma anche nei confronti di persone estranee ed incolpevoli, come ragazze e donne incinte, in un clima di rivolta contadina, con i suoi improvvisi selvaggi furori, in un misto di rivalse sociali, nazionali, politiche, economiche e personali. Le violenze e le uccisioni assunsero valenza non solo ideologica ma anche nazionale per la presenza nelle fila partigiane di numerosi esponenti nazionalisti, i «narodnjaci», che rivendicavano la Venezia Giulia alla nuova Jugoslavia che volevano costruire. Vennero presi di mira, arrestati, deportati e uccisi non solo gli appartenenti alle forze dell’ordine (carabinieri, agenti di polizia, guardie forestali e finanzieri), ma pure maestri, bidelli, podestà, segretari e messi comunali, postini: tutte le figure più rappresentative di quella che era l’Amministrazione statale italiana. La sorte di molte di queste persone, oltre 500 nella sola provincia di Pola, rimase avvolta per diverse settimane nel mistero: si seppe che erano state portate in alcune località adibite a prigione, come ad Albona, Arsia e Pisino. Poi, in molti casi, non si seppe più nulla.

L’arrivo dei tedeschi, che ad inizio ottobre 1943 scatenarono una violenta offensiva tesa a sgominare l’attività partigiana in tutta la regione, mise fine ai «poteri popolari». In pochi giorni le truppe naziste misero a ferro e fuoco ogni paese dove trovarono minima resistenza, con un pesante tributo di sangue pagato non solo dai partigiani ma dall’intera popolazione civile giuliana.

XI. LE FOIBE: DEPORTAZIONI E UCCISIONI IN VENEZIA GIULIA E DALMAZIA

Nel corso del settembre-ottobre del 1943 e, in misura molto più ampia, durante la primavera del 1945, le foibe rappresentarono il simbolo di una tragedia spaventosa che colpì la popolazione giuliano-dalmata, quando alcune migliaia di persone vennero uccise dai partigiani di Tito ed i loro corpi furono gettati in parte in queste voragini, in parte nelle fosse comuni o in fondo all’Adriatico, oppure non tornarono dai vari luoghi di prigionia. Elemento comune di questo dramma fu la quasi totale mancanza di notizie delle persone deportate che sparirono senza lasciare traccia, per cui nel tempo si è consolidato l’uso del termine «foiba» nel suo significato soprattutto simbolico, come paradigma di una vicenda molto più ampia, a prescindere dal luogo esatto e dalle specifiche modalità che interessarono le singole uccisioni.

Il termine «foiba» divenne nel tempo rappresentativo della fine di tutte le migliaia di persone scomparse senza dare più notizia di sé, uccise a seguito di due distinte ondate di violenza scatenate da elementi del Movimento Popolare di Liberazione jugoslavo. Molti vennero fucilati o comunque eliminati durante la loro deportazione, altri cessarono di vivere per malattia, per stenti o per le esecuzioni sommarie di cui furono vittime nei lunghi periodi di detenzione nelle carceri o nei campi di concentramento nelle varie regioni della Jugoslavia. Non indifferente è in particolare il numero di coloro, che dopo il loro arresto, furono uccisi anche parecchi mesi dopo la fine della guerra dagli organi di polizia jugoslavi.

LE FOIBE. COSA SONO?

Foiba: vocabolo derivato dal latino fovea che significa fossa, abisso. Fino a pochi anni fa il termine si trovava solo nei testi di geologia per definire uno dei tanti fenomeni carsici tipici della Venezia Giulia. Le foibe sono delle cavità naturali, voragini a forma di imbuto, che sprofondano più o meno verticalmente nel terreno per decine di metri, talvolta con salti di due-trecento metri, autentici pozzi naturali, abissi che appaiono all’improvviso sul territorio. Possono avere dimensioni molto variabili, da quella di Pisino, la più vasta dell’Istria, a quelle del Carso triestino.

Foiba di Pisino

La bocca della foiba, o inghiottitoio, ha di solito un’apertura della larghezza di pochi metri ed è quasi sempre semi occultata dalla vegetazione spontanea che vi cresce attorno, per cui risulta di difficile localizzazione. Sotto l’apertura si spalanca la voragine che ha un andamento quasi sempre molto irregolare e tortuoso, che si sviluppa in cunicoli ed anfratti inaccessibili all’uomo. Sovente è difficile, se non impossibile, capire dove finisca la voragine perché essa, molte volte, si dirama in un dedalo di stretti pertugi che continuano a scendere, perdendosi nelle viscere della terra.

Un censimento effettuato dalla “Società Alpina delle Giulie” rilevò l’esistenza di circa un migliaio di foibe nella sola provincia di Trieste, mentre per l’intera regione la quantità complessiva delle cavità conosciute è superiore a millesettecento, ad ognuna delle quali il catasto grotte ha assegnato uno specifico numero di identificazione.

Nel passato queste cavità vennero utilizzate dai contadini del posto per eliminare sterpaglia, macerie, carcasse di animali morti, vecchie suppellettili e, più in generale, prodotti deteriorati.

XII. L’OCCUPAZIONE NAZISTA NELLA VENEZIA GIULIA E IN DALMAZIA

Nell’ottobre 1943, dopo aver sconfitto i residui reparti partigiani presenti sul territorio, i tedeschi completarono l’occupazione dell’intera Venezia Giulia e della Dalmazia e costituirono l’«Adriatisches Küstenland» (Zona di Operazioni Litorale Adriatico), che riproponeva dal punto di vista geopolitico il vecchio «Litorale Austriaco» di asburgica memoria, collegato al Reich nazista tramite la Carinzia. L’«Adriatisches Küstenland» comprendeva la Venezia Giulia allargata ad alcuni territori limitrofi ed era perciò composta dalle province di Trieste, Gorizia, Pola, Udine, Lubiana e Fiume, quest’ultima con i distretti annessi nel 1941 (Castua, Sussak e l’isola di Veglia). I nazisti esercitarono un potere quasi assoluto sulla regione che differiva molto poco da un’effettiva dichiarazione di sovranità, anche se rimasero al loro posto una parte delle autorità locali italiane i cui compiti furono molto limitati dai tedeschi. I nazisti ostacolarono pure la costituzione e l’insediamento di reparti militari della Repubblica Sociale Italiana che, numericamente esigui, dovettero comunque dipendere sotto l’aspetto tattico-operativo dalle autorità germaniche.

Nel corso del 1944 l’attività partigiana del Movimento Popolare di Liberazione riprese vigore e ben presto in tutta la regione si verificarono sabotaggi, interruzioni delle linee di comunicazione ed incursioni di sorpresa contro guarnigioni isolate. Le operazioni di controguerriglia da parte tedesca vennero condotte con vaste attività di rastrellamento che ebbero lo scopo sia di riprendere il controllo del territorio che di infliggere perdite ai reparti partigiani.

I tedeschi misero in atto una politica repressiva contro chiunque fosse sospettato di collusione con il movimento partigiano e molte migliaia di persone furono arrestate e deportate in Germania. A Trieste in particolare i nazisti istituirono un campo di detenzione di polizia presso la Risiera di San Sabba, che funzionò come un campo di transito per gli ebrei rastrellati nel Litorale e come luogo di tortura ed eliminazione per partigiani, antifascisti, civili catturati durante i rastrellamenti. Dall’aprile del 1944, fino alla conclusione della guerra, venne attivato nella Risiera il forno crematorio.

Pochissimi furono gli ebrei che scamparono alle retate tedesche e ancor meno quelli che uscirono vivi dai campi di sterminio nazisti. Su 1.235 ebrei deportati dall’intera Venezia Giulia, soprattutto da Fiume, Trieste e Gorizia, ne sopravvissero solo 39.

XIII. ZARA, UNA CITTÀ DISTRUTTA

La città di Zara, roccaforte della presenza italiana in Dalmazia, rimase per tredici mesi, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, in una posizione drammatica. Occupata militarmente dai tedeschi, continuò ad avere un’amministrazione italiana, grazie anche all’opera del prefetto Vincenzo Serrentino, che riuscì a rintuzzare le ingerenze dei nazisti e dei croati di Pavelic. La città venne continuamente bombardata dall’aviazione angloamericana, anche in base alle sollecitazioni dei comandi partigiani jugoslavi, con 54 pesanti incursioni che la colpirono tra il 1943 ed il 1944 e la ridussero ad un cumulo di macerie. In pochi mesi Zara venne rasa al suolo e circa 2.000 dei suoi 21.000 abitanti morirono sotto i bombardamenti. Altre 15.000 persone circa abbandonarono la città per fuggire verso Trieste e Ancona. Quando i tedeschi si ritirarono dalla Dalmazia ed evacuarono Zara (31 ottobre 1944), la città venne occupata dai partigiani jugoslavi che subito operarono i primi arresti, eliminando decine di abitanti e deportandone altri verso ignota destinazione. Zara fu il capoluogo italiano di provincia più distrutto nel corso della seconda guerra mondiale.

XIV. LA FINE DELLA GUERRA E LE VIOLENZE DEL MAGGIO-GIUGNO 1945

Nell’aprile 1945 le forze armate della Germania nazista, attaccate su più fronti, entrarono nella fase finale di una crisi ormai irreversibile e fu chiaro a tutti che la fine della guerra era questione di giorni. In Italia le truppe angloamericane irruppero nella Valle Padana, spingendosi anche verso est in direzione di Venezia e Trieste. Negli stessi giorni l’esercito di Tito investì il confine orientale d’Italia, puntando ad occupare quanto prima la Venezia Giulia («Operazione Trieste»), anche a scapito della liberazione di Lubiana e di Zagabria che, infatti, vennero raggiunte dalle truppe jugoslave molto dopo. La resa delle forze germaniche in Italia venne firmata a Caserta il 29 aprile 1945 e divenne effettiva dal 2 maggio.

I reparti jugoslavi giunsero a Trieste il 1° maggio 1945, anticipando di un giorno i neozelandesi, così come anche Gorizia e Monfalcone, mentre nei giorni seguenti l’esercito di Tito entrò a Fiume e a Pola, completando l’occupazione dell’intera Venezia Giulia. Le formazioni partigiane italiane vennero subito disarmate e numerosi membri del CLN giuliano vennero arrestati, uccisi o costretti nuovamente alla clandestinità per sfuggire alle persecuzioni.

Gli jugoslavi dichiararono l’annessione unilaterale dell’intera regione e festeggiarono l’avvenimento con manifestazioni e cortei pubblici in tutte le località. Contemporaneamente alla presa del potere da parte delle nuove autorità comuniste, iniziarono gli arresti e le deportazioni di migliaia di persone ad opera della Polizia Segreta jugoslava (l’O.Z.NA.) ed in tutta la Venezia Giulia una pesantissima cappa di oppressione e paura avvolse la gran parte della popolazione. Molti militari tedeschi ed italiani appena catturati furono fucilati, con esecuzioni sommarie, in spregio ad ogni norma internazionale di tutela dei prigionieri, mentre tanti altri vennero deportati nei campi di prigionia dove fame, malattie e violenze di ogni genere ne causarono la morte in gran numero.

Per diversi civili la sorte fu simile: una parte degli arrestati venne eliminata quasi subito sia nelle foibe carsiche che in altri modi, mentre ancora maggiore fu il numero di coloro che vennero deportati nei campi di concentramento nell’interno della Jugoslavia.

Le deportazioni e le uccisioni riguardarono soprattutto coloro che, agli occhi dell’O.Z.NA., potevano rappresentare un possibile ostacolo ai piani annessionistici jugoslavi. Se per l’autunno 1943 si parla di circa 500 persone infoibate in Istria (e circa 750 se si conta anche la Dalmazia), per le deportazioni e le uccisioni del maggio- giugno 1945 le stime più accreditate si orientano su alcune migliaia di vittime. Tra queste, molti sacerdoti di nazionalità italiana e nativi di quei luoghi.

XV. LE DEPORTAZIONI DEL 1945

Alla fine della guerra le autorità comuniste jugoslave si insediarono in tutta le città e località della Venezia Giulia. L’ondata di violenze a danno della popolazione giuliana avvenne in modo capillare e tristemente famosi divennero i nomi dei campi di concentramento dove furono raggruppati i militari ed i civili deportati in quei giorni del maggio-giugno 1945. Molto note furono le strutture detentive di Stara Gradisca, Lepoglava, Borovnica, Prestrane, Maresego, Aidussina, Sisak, Novo Mesto, Sveti Vid, Buccari, mentre diversi detenuti furono imprigionate nelle carceri di Pisino, Pola, Fiume, Albona, Lubiana e Maribor.

Nel dopoguerra si venne a sapere che in diverse foibe furono gettate numerose vittime di quei drammatici giorni, ma i confini erano ormai cambiati e le ricerche risultarono impossibili. Quasi tutte le foibe carsiche sono rimaste in territorio divenuto poi jugoslavo (oggi sloveno o croato), mentre in Italia sono rimaste le cavità di Basovizza, Monrupino e dell’Abisso Plutone (vicino a Trieste). La voragine di Basovizza (che in realtà non è una foiba naturale, ma è il pozzo di una vecchia miniera abbandonata), è stata dichiarata nel 1992 «Monumento Nazionale» e, nel tempo, è diventata il memoriale principale per tutte le vittime degli eccidi perpetrati dagli jugoslavi di Tito nel 1943 e nel 1945.

XVI. IL TRATTATO DI PACE DI PARIGI

Con la firma del Trattato di pace, l’Italia, nazione sconfitta, dovette accettare tutte le pesanti condizioni stabilite dalle Potenze vincitrici. Oltre alla perdita delle colonie in Africa, delle isole del Dodecaneso e di altri possedimenti minori, vennero modificati sia il confine occidentale con la Francia (Briga, Tenda ed alcune vallate alpine) sia, soprattutto, il confine orientale con la Jugoslavia.

Con il Trattato di pace firmato a Parigi il 10 febbraio 1947 fu sancita in particolare la cessione di buona parte della Venezia Giulia alla Jugoslavia di Tito e la creazione del Territorio Libero di Trieste (T.L.T.), suddiviso in due zone: la «Zona A» sotto amministrazione militare angloamericana e la «Zona B» sotto amministrazione militare jugoslava.

Le intere province di Pola, di Fiume, di Zara e la gran parte di quelle di Gorizia e Trieste furono assegnate alla Jugoslavia al termine di un duro e lungo contenzioso che comunque avrebbe avuto degli strascichi, per la questione di Trieste e del relativo Territorio Libero, ancora per molti anni.

La Venezia Giulia si trovava comunque già dai primi giorni di maggio del 1945 di fatto separata dal resto d’Italia, essendo stata occupata militarmente dalle truppe dell’Armata Popolare jugoslava giunte prima dell’arrivo dei reparti angloamericani. Quest’occupazione influenzò profondamente gli avvenimenti successivi pregiudicando le aspettative della popolazione italiana che cercò, peraltro inutilmente, di far valere le proprie ragioni davanti alle potenze vincitrici. La regione giuliana venne visitata nel marzo 1946 da una Commissione interalleata avente lo scopo di delimitare i confini tra l’Italia e la Jugoslavia. Ne facevano parte delegati inglesi, americani, francesi e russi e, al termine, della loro visita, ogni delegazione fece una proposta rispondente alla volontà dei propri governi. Le linee ipotizzate differivano molto una dall’altra e il risultato finale deciso a Parigi, con la cessione della gran parte della regione alla Jugoslavia e la creazione del T.L.T., sancì l’abbandono da parte italiana di territori che avevano gravitato per secoli nella sfera culturale nazionale.

XVII. L’ESODO

Per una gran parte degli abitanti della Venezia Giulia il cambio di sovranità tra Italia e Jugoslavia fu traumatico e portò all’esodo di una frazione consistente della popolazione. Su un totale di circa 500.000 persone, che abitavano all’epoca nei territori passati sotto la sovranità jugoslava, la grande maggioranza scelse di abbandonare le proprie case per trasferirsi oltre confine e comunque per vivere in un Paese occidentale. Diverse furono le cause: il passaggio ad un regime di stampo comunista le cui imposizioni sul piano economico, politico, sociale, amministrativo, religioso e culturale, indusse gli abitanti a perdere tutto ciò che possedevano pur di fuggire da una realtà percepita come ostile e pericolosa. L’introduzione della lingua slovena e croata obbligatorie, l’azzeramento delle consuetudini sociali e delle tradizioni, la criminalizzazione della vita religiosa, un senso di completa estraneità alla nuova realtà furono i fattori decisivi. La politica degli ammassi, le confische dei beni, il cooperativismo, il «lavoro volontario», la socializzazione forzata, contribuirono a far crollare la base economica di molte persone privandole del necessario sostentamento.

L’apparato repressivo poliziesco instaurò poi un clima di tensione e sospetto che portò alla negazione delle libertà individuali fondamentali. Molti cittadini furono bollati come «nemici del popolo» e subirono angherie ed abusi di ogni genere, patendo il capestro della cosiddetta giustizia popolare, con processi da farsa e condanne spesso del tutto spropositate ed immotivate. L’insieme di questi fattori fece sì che partì un intero popolo, senza distinzione di ceto sociale, con punte del 90% per alcune località della costa e dell’immediato entroterra istriano, come pure della Dalmazia. Secondo un censimento effettuato dall’«Opera per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati», il 45,6% degli esuli erano operai, il 23,4% donne ed anziani, il 17,6% impiegati e dirigenti e solo il 13,4% erano commercianti, artigiani e professionisti.

Immagine dell'Esodo Istriano

L’esodo coprì un periodo di oltre 15 anni, fino alla fine degli anni Cinquanta, ed avvenne alla spicciolata, senza una specifica organizzazione, tranne nel caso di Pola, dove la presenza dell’amministrazione militare alleata fece sì che nell’inverno 1947 le partenze potessero essere organizzate e pianificate dal Comitato per l’esodo. Grazie soprattutto ai viaggi compiuti dalle motonavi “Toscana” e “Grado”, in poche settimane lasciarono Pola circa 28.000 abitanti su 32.000.

XVIII. I CAMPI PROFUGHI

Lasciarono la Venezia Giulia circa 300.000 persone su 500.000 che abitavano nelle località cedute alla Jugoslavia. L’esodo fu massiccio soprattutto nelle principali città della costa (Pola, Fiume, Zara, Rovigno, Parenzo, Albona) e delle isole (Cherso e Lussino), mentre invece fu minore nelle località dell’entroterra. La gran massa dei profughi giunse, dopo aver dovuto abbandonare tutti i beni immobili e parte di quelli mobili, a Trieste, e poi a Gorizia e a Udine, in condizioni estremamente precarie.

Furono oltre 140 le strutture che accolsero, a più riprese, gli esuli giuliano dalmati: dai Centri Raccolta Profughi (C.R.P.) alle caserme dismesse, dalle scuole alle pensioni ed agli alloggi requisiti. Gli esuli vi rimasero per lunghi periodi, talvolta anche per anni, in condizioni spesso di iniziale promiscuità e di estremo disagio, in attesa di una dimora più decorosa. La solidarietà delle popolazioni locali non fu sempre in linea con le aspettative. Se molti enti locali e tante persone di buona volontà si prodigarono per aiutare i profughi, non mancarono casi invece di ostruzionismo che culminarono in autentica ostilità da parte di coloro che non vollero capire il dramma umano di chi aveva dovuto lasciare la propria terra.

In tutti gli esuli il distacco dalla terra natia provocò dolore, nostalgia ed amarezza per le troppe incomprensioni che spesso trovarono nei luoghi dove si sistemarono. L’inserimento nel mondo del lavoro e nel tessuto sociale delle località dove erano giunti ad abitare fu peraltro quasi sempre positivo. Notevole fu pure il numero di coloro che abbandonarono del tutto l’Italia. Circa 70.000 emigrarono all’estero, soprattutto nel Nord e Sud America ed in Australia.

XIX. IL «MEMORANDUM» DI LONDRA. TRIESTE TORNA ALL’ITALIA

Il Trattato di pace del 1947 aveva creato il Territorio Libero di Trieste (T.L.T.), diviso nella «Zona A», sotto amministrazione militare angloamericana, e nella «Zona B», sotto amministrazione militare jugoslava. Nella «Zona B» molte persone rimasero ad abitare ancora per diversi anni nella speranza che, alla luce della mutata situazione politica internazionale, l’intera zona sarebbe stata, prima o poi, restituita all’Italia. Una parte della popolazione sopportò perciò per anni le angherie, le pressioni e le vessazioni titoiste che raggiunsero il loro apice in concomitanza con le elezioni amministrative del 16 aprile 1950 e con le violenze scatenate dal regime nell’ottobre 1953, dopo la dichiarazione angloamericana volta a risolvere la «questione di Trieste».

Dopo lunghe trattative diplomatiche, il 5 ottobre 1954 venne siglato a Londra il «Memorandum d’Intesa» tra Italia, Jugoslavia, Gran Bretagna e Stati Uniti con cui veniva sancita la fine del T.L.T. e la conseguente estensione dell’amministrazione civile jugoslava alla «Zona B» e il passaggio all’amministrazione italiana di Trieste e della restante parte della «Zona A».

Piazza dell'Unita' d'Italia di Trieste

Mentre a Trieste tutti gli abitanti di sentimenti italiani festeggiarono il ritorno dell’amministrazione italiana, nella «Zona A» molti istriani presero la decisione di partire. Se ne andarono dalla ormai ex «Zona B» oltre 24.000 persone, non solo italiane, poiché partirono pure quasi tremila slavi dei paesini adiacenti i centri costieri, questi ultimi compattamente italiani.

Anche se il Governo italiano avrebbe rinunciato alla sovranità italiana sulla «Zona B» appena nel 1975 con la firma del trattato di Osimo, fu quindi ben chiaro, già nel 1954, quale sarebbe stato l’assetto finale del confine, e ciò rappresentò la caduta di ogni residua speranza per tutti coloro che, di lì a poco, sarebbero partiti.

XX. IL TRATTATO DI OSIMO

La questione del confine orientale d’Italia, di attualità fino all’autunno del 1954, dopo il «Memorandum d’Intesa» di Londra divenne gradualmente secondaria negli interessi dell’opinione pubblica nazionale. Trieste era ritornata italiana e, agli occhi di molti, la partita era ormai chiusa. In realtà a Londra non c’era stata, da parte italiana, alcuna rinuncia formale alla sovranità sulla «Zona B» e soprattutto nel mondo degli esuli istriani restava accesa la speranza di una possibile ed ipotetica ripresa delle trattative in futuro. Da parte jugoslava c’era invece la volontà di addivenire alla definitiva sistemazione della sovranità sulle parti in oggetto.

Vi furono lunghe trattative riservate tra il Governo italiano e quello jugoslavo e il 10 novembre 1975 ad Osimo venne firmato il Trattato che riconosceva la rinuncia implicita della sovranità italiana sulla «Zona B».

Le proteste da parte delle associazioni degli esuli e di buona parte della popolazione triestina furono molto accese, ma il Trattato di Osimo venne comunque ratificato dal Parlamento ed entrò ufficialmente in vigore il 3 aprile 1977. Le cittadine di Capodistria, Pirano, Isola d’Istria, Buie, Umago e Cittanova erano state, per la sensibilità degli esuli, cedute in un momento storico ben diverso da quello dell’immediato dopoguerra e questa decisione del Governo italiano, presa 30 anni dopo la fine della guerra, venne vissuta come un tradimento da parte di coloro che avevano lasciato le loro città d’origine e che avevano continuato a sperare in un diverso esito della vicenda giuliana.

XXI. I BENI ABBANDONATI

Gli esuli giuliano-dalmati subirono diverse ingiustizie, ma una delle più rilevanti fu quella che riguardò il loro patrimonio personale. Gli esuli persero tutti i loro beni immobili (case, appartamenti, campagne, terreni, aziende) ed una parte di quelli mobili.

Il Trattato di pace del 1947 prevedeva invece (art. 9 dell’allegato XIV) che «i beni, diritti e interessi dei cittadini italiani, che siano residenti permanenti nei territori ceduti alla data dell’entrata in vigore del presente Trattato, saranno rispettati, su una base di parità rispetto ai diritti dei cittadini dello Stato successore, purché siano stati legittimamente acquisiti». In realtà in molti casi le autorità jugoslave operarono confische, sequestri, espropri e nazionalizzazioni ai danni dei privati proprietari e fu chiaro sin da subito che chiunque fosse partito avrebbe perso i beni rimasti nei territori ceduti. Essendo ormai palese che le autorità jugoslave stavano procedendo ad appropriarsi dei beni dei cittadini italiani, il Governo italiano nel 1949 si accordò con il Governo jugoslavo per la conversione dei «beni abbandonati» dagli esuli in un indennità forfetaria da versare agli stessi profughi e nel 1950 la Jugoslavia si impegnò ad acquistare i beni, per i quali i proprietari optanti avessero rilasciato dichiarazione di vendita.

Successivamente, con l’Accordo di Belgrado del 18 dicembre 1954, il Governo Italiano utilizzò il valore complessivo dei «beni abbandonati» dagli esuli (stimati all’epoca circa 72 milioni di dollari) per compensare il debito esistente con la Jugoslavia per i danni di guerra sanciti dal Trattato di pace (125 milioni di dollari). Parallelamente e, anche in virtù di tale compensazione, il Governo Italiano si impegnò ad indennizzare gli esuli per i loro beni (sebbene in base ai prezzi di mercato del 1938 rivalutati solo in misura limitata), ma nel corso dei decenni vennero erogati soltanto alcuni modesti acconti, mentre è finora mancato un indennizzo equo e soprattutto definitivo a titolo di saldo con un notevole danno economico e morale per chi ha dovuto lasciare, 60 anni fa, la propria terra.

XXII. LE COMUNITÀ E LE SCUOLE ITALIANE ESISTENTI IN ISTRIA, FIUME E IN DALMAZIA DOPO L’ESODO

Se il dramma dell’esodo venne, nel corso degli anni, confinato in un angolo sempre più buio della storiografia nazionale, ancora meno conosciuta fu dal dopoguerra ad oggi la sorte toccata a coloro che decisero di restare nella Jugoslavia di Tito o che non poterono andarsene per tutta una serie di svariati motivi. Alcuni rimasero per una precisa scelta di campo politica ed ideologica, molti invece preferirono restare per non lasciare le proprie case, le proprie campagne, il proprio ambiente nativo; altri ancora non vollero lasciare soli i propri vecchi che si rifiutarono di partire e furono soprattutto le figlie ad accudire gli anziani genitori. Non poche furono poi le domande di opzione per la cittadinanza italiana che vennero bocciate dalle autorità jugoslave (circa 20.000).

Il numero degli italiani in Istria, a Fiume ed in Dalmazia scese velocemente sia per l’esodo che continuò fino alla fine degli anni Cinquanta sia per la lenta assimilazione cui furono sottoposti i connazionali rimasti, divenuti nel tempo una minoranza sempre meno consistente. I censimenti jugoslavi del dopoguerra riportarono il continuo e veloce calo della presenza italiana nei territori ceduti e gli ultimi dati del 2001-2002 segnalano l’esistenza di circa 22.000 persone che nelle attuali repubbliche di Slovenia e di Croazia si dichiarano ancora di nazionalità italiana. L’attuale minoranza italiana esistente in Slovenia e in Croazia è strutturata in una cinquantina di sodalizi, detti «Comunità Italiane (C.I.)», situati nelle località dove vi è il più alto numero di connazionali (si veda l’elenco in tabella).

Vi sono anche istituzioni scolastiche in lingua italiana per garantire la possibilità agli alunni della minoranza italiana di apprendere nella propria madre lingua. Tali scuole sono peraltro frequentate anche da allievi della maggioranza. La rete scolastica italiana non è numericamente adeguata, dato che non copre tutte le località di insediamento storico dei connazionali. Attualmente vi sono comunque 37 asili, 14 scuole elementari (ottennali o novennali) e 7 scuole medie superiori, situate tra il territorio istriano e la città di Fiume, mentre invece mancano completamente istituzioni scolastiche italiane in Dalmazia e sulle isole. Gli allievi complessivi dell’intera rete scolastica italiana sono di poco superiori alle 4.000 unità.

BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA

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