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Il riformismo

(Tra narrazione, realta’ e utopia)

 

Di Andrea Talia

 

    Premessa

 

     Il riformismo e’ quel movimento che mira a migliorare e perfezionare, magari radicalmente, ma non a distruggere, l’ordinamento esistente. Cio’ in quanto ritiene valori assoluti di civilta’ i principi su cui si basa. Cioe’: la liberta’ individuale, la democrazia, il benessere per tutti.

Il riformismo e’ quindi una questione di metodo. E’ un continuo processo di soluzioni di problemi parziali (cangianti a seconda delle sopravvenute esigenze), nell’ambito di una cornice unitaria.

Sullo sfondo del riformismo: la globalizzazione, la post-democrazia, il mondo giovanile, il consenso.

Quindi non una categoria dello spirito, non mere ideologie, non esercitazioni accademiche. Ma “noccioli duri” di cui tener conto. Nell’ambito di alcune coordinate: impegni e atti; risorse e risultati; pragmatismo e fantasia.

Il riformismo, in buona sostanza, e’ politica di cambiamento. Oggi, come ieri, carente.

Radicalismi, litigiosita’, inadeguatezza, impediscono visioni unificatrici. Abbiamo quindi bisogno di una nuova classe politica che abbia la capacita’ di mediare, di costruire alleanze, di presentare i vantaggi che deriverebbero per tutti dall’attuare l’insieme delle riforme.

Al contempo, di una societa’ civile che rappresenti interessi almeno altrettanto agguerrita di quelle che si oppongono al cambiamento.

 

Analisi storica

 

     Il movimento riformista, alla fine dell’Ottocento, si diparti’ in due filoni.

“Riformisti” e “Rivoluzionari”, in base a due diversi modi di concepire il fine ultimo (“il superamento del capitalismo”). (1)

Piu’ specificatamente, per i primi, la democrazia liberale andava fortificata ed estesa.

Per i secondi, invece, divisi storicamente in massimalisti (la crisi generale del capitalismo rendeva transitorio l’assetto democratico) e rivoluzionari in senso stretto (Marx, Engels, Lenin), l’ordinamento dello Stato doveva essere travolto. Non modificato e migliorato. Pacificamente o (meglio) manu militare.

I riformisti del Novecento, accantonarono (ben presto) la prospettiva della rivoluzione mondiale. Permase, peraltro, (per un certo tempo), una contrapposizione radicale in ordine al riconoscimento/disconoscimento della democrazia, come regola non modificabile del gioco politico.

Il piu’ rilevante risultato dei governi a guida socialista e cattolica-sociale nel XX secolo in Europa e’ stato il realizzarsi di un complesso di misure e di istituzioni, funzionali a rendere irreversibili i diritti sociali. Intesi “come l’insieme delle pretese o esigenze da cui derivano legittime aspettative che i cittadini hanno come individui in societa’ con altri individui” (Bobbio).

Ma anche come diritti di liberta’, perche’ “costituiscono la premessa indispensabile per assicurare a tutti i cittadini il godimento effettivo delle liberta’ politiche” (Calamandrei).

Il Welfare state – in un intreccio virtuoso tra economia e societa’ – aveva raccolto il messaggio di liberazione dalla insicurezza e dal bisogno (“dalla culla alla tomba”).

Grazie al movimento operaio e democratico, al cristianesimo sociale (la “Rerum novarum” di Leone XIII risale al 1891), al liberalismo illuminato. Fondato, quest’ultimo, sul principio del “Laissez faire” in materia economico-sociale. Nel dogma, quindi, che lo Stato dovesse assolutamente astenersi da ogni intervento.

Su di un versante strettamente ideologico-politico, tale strategia venne attivata, prima dai gruppi di avanguardia, poi dai vari movimenti latamente definibili socialisti. Pur non senza contrasti. Una parte coltivo’ l’idea del possibile divenire gradualistico del socialismo; un’altra si mantenne fedele al terreno dell’ortodossia massimalistica.

 

Il socialismo italiano. La figura di Filippo Turati

 

     Il riformismo e’ parte essenziale della sinistra. (2) Almeno della sinistra originaria, datata, dacche’ quella attuale non sembra in grado di riproporre, nelle condizioni date, la funzione propria delle sue origini: cambiare la societa’ nell’interesse della stragrande maggioranza.

Aggiungo che oggi, attenuatesi le categorie destra/sinistra, in termini di contrapposizioni, simboli e distinguo, il riformismo non appare piu’ come elemento politico e culturale discriminante, ma come fatto culturale. Il mondo globale e’ complesso e la geometria euclidea ha fatto il suo tempo. L’importante e’ scrivere insieme (destra e sinistra) le regole del gioco, avendo di mira il bene comune.

Cio’ premesso, il riformismo degli albori appare strettamente legato alla storia del movimento operaio.

Storia contrastata e venata, al suo interno, da profonde lacerazioni. L’anarchismo (Costa), l’insurrezionismo (Pisacane, Bakunin), il classismo operaista politico-sociale (marxista). (3).

Il partito socialista, caratterizzato da una magniloquente aggressivita’ verbale e da un violento programma dell’esecutivo, pote’ sopravvivere anche e soprattutto in virtu’ della saggezza pragmatica turatiana.

Turati, pur messo in minoranza (unitamente a Treves) nel congresso di Bologna (1919), continuo’ a praticare un riformismo graduale, dei piccoli passi. Egli pensava a un crogiuolo virtuoso delle diverse forze disponibili. Voleva attrarre i democratici-borghesi in crisi (radicali e repubblicani convertibili al socialismo), attraverso un socialismo ragionevole, elezionista e legalitario.

Voleva altresi’ inglobare anarchici e operaisti nel nome del collettivismo e della lotta di classe.

Nel XVI Congresso del PSI (1920) ebbe a dichiarare (4): “noi allontaniamo dalla rivoluzione le stesse classi operaie. Perche’ e’ chiaro che, mantenendole nella aspettazione messianica del miracolo violento, voi lo svegliate dal lavoro assiduo e pensoso di conquista graduale”.

Ed ancora, nel Discorso di Torino (1924) (5): “non bisogna dimenticare le funzioni che le classi intermedie hanno nella societa’ moderna. Il comunismo respinge politicamente queste classi… che sono una grande forza morale e tecnica di cui abbiamo bisogno”.

Peraltro, i socialisti avrebbero potuto guidare una rivoluzione, ma non ne furono all’altezza. Avrebbero potuto imporre un governo riformista, quale che fosse, ma fallirono in questo. Anzi, non vi provarono nemmeno.

Turati, pur con i suoi indubbi meriti, fu (6) “pateticamente incapace sul campo di imporre la propria analisi”.

Mussolini – che adoperava, quando si riteneva rivoluzionario socialista - metodi indifferentemente democratici ed antidemocratici, legalitari e violenti, gradualisti e catastrofisti, bollo’ Turati come “Illustre Prudenzio”.

Nel “biennio rosso” (1920-1921), il socialismo italiano (Turati, Kuliscioff, Bissolati, Costa, Treves), sciupo’ irrimediabilmente il suo capitale elettorale. Passato – dal 1914 al 1920 – da 50.000 a 200.000 iscritti; ad una triplicazione del gruppo parlamentare; ad una quadriplicazione degli addetti alla Confederazione generale del lavoro.

Il 21 gennaio 1921, a Livorno, nasceva il Partito comunista. Con i massimalisti di Bordiga, si erano ritrovati (tra gli altri) Tasca, Terracini, Togliatti e Gramsci.

Va soggiunto, per onesta’ intellettuale, che:

-         Lenin (7), pur approvando le critiche di Bordiga al riformismo di Turati, le aveva censurate e stigmatizzate. Si ingenera “la falsa conclusione che, in genere, ogni partecipazione al Parlamento deve essere considerata dannosa”;

-          Gramsci (“I Quaderni del carcere)”, elaboro’ una vera e propria teoria generale delle “crisi”. Originate dal contrasto, sempre piu’ stridente, fra il “cosmopolitismo” dell’economia e il “nazionalismo” della politica.

Peraltro, socialisti (Nitti e Turati) e comunisti (Tasca e Togliatti) furono accomunati, per un tratto della loro vita, da un destino comune. Dovettero andare in esilio (1925), aprendo la via ad una vasta emigrazione politica.

 

La politica riformista nei primi tre decenni del secondo dopoguerra

 

 A) Generalita’.

 

     Il trentennio, 48/78, registro’ l’ascesa di un riformismo (in un certo qual modo) nazionale. Pur in presenza di un PCI, estremamente agguerrito in termini di peso elettorale, di consensi, di leadership (Togliatti), succube delle strategie egemoniche dell’URSS. Basate su criteri militari e sulla divisione in due dell’Europa (“cortina di ferro”).

Il PCI, preoccupato di affermare la sua legittimita’, riluttante a disubbidire alle richieste sovietiche, scelse all’inizio di giocare d’attesa. Non favorendo, quindi, tentativi di riforma.

Tra le poche eccezioni, il comunista Gullo che, divenuto ministro dell’Agricoltura (1944), varo’ una riforma intesa a spezzare (riforma dei patti agrari) l’equilibrio esistente nei rapporti di classe del Meridione rurale.

Il tentativo falli’; il nuovo ministro democristiano dell’Agricoltura, Antonio Segni, fece marcia indietro, rassicurando le èlites meridionali; nelle elezioni dell’aprile 1948, la DC recupero’ gran parte del terreno elettorale che aveva perso nel meridione agricolo. I problemi di queste zone, tuttavia, rimanevano urgenti come prima.

Altra eccezione, Giuseppe Di Vittorio, dirigente di eccezionale talento e umanita’. Ricordo che, Di Vittorio, nel 1949 nel Congresso nazionale della CGIL, presento’ il Piano del Lavoro, articolato in tre grandi progetti: nazionalizzazione dell’industria elettrica; programma di bonifica; piano edilizio. (8)

Fatta questa premessa, schematizzando al massimo, forniamo qualche notazione in ordine ai singoli subperiodi:

 

 B) IL periodo del Centrismo (1948-1953)

 

     Grazie alla stabilizzazione politica raggiunta con le elezioni del 18 aprile 1948, poteva finalmente avere inizio quell’opera di ricostruzione che a molti sembrava disperata. Eppure, in pochi anni, gli italiani dimostrarono di essere capaci di dare il meglio di se’ proprio quando la situazione e’ piu’ difficile.

A prezzo di enormi sacrifici e di un duro confronto con l’opposizione, i diversi Governi De Gasperi contribuirono alla nascita di un’industria che si affermo’ poi come una delle piu’ competitive in Europa; affrontarono la questione meridionale istituendo la Cassa del Mezzogiorno; crearono un sistema fiscale moderno; vararono la riforma agraria (9).

De Gasperi, fondamentalmente uomo di centro, rifuggi’, politicamente, dagli opposti eccessi.

Sia sul versante della destra “vaticana”, che auspicava un ritorno a un cattolicesimo autoritario; sia su quello della sinistra, guidata da Giuseppe Dossetti, (v. nota 31), che immaginava il partito come una forza evangelica, riformista e anticapitalista, all’interno della societa’ italiana.

De Gasperi non lascio’ eredi. “La DC, che si trovo’ di fronte al Congresso del 1953 era tutt’altra DC rispetto a quella da lui guidata, in mano a una categoria di apparatchik, cresciuta a sua insaputa nelle pieghe della macchina partitica e diventatane padrone”. (Montanelli, Storia d’Italia).

Altra personalita’ per certi versi singolare di questo periodo, e’ stato Enrico Mattei, che nel 1953, divenne presidente della sua creatura: l’Eni, dopo aver rottamato l’Agip.

 

 C) Il centrosinistra

 

      Il suo leader Fanfani (1962), attuo’ la programmazione economica e la nazionalizzazione dell’energia elettrica.

 

 D) I Governi Moro (10)

 

a)      1963-1964:

   Moro e i dorotei si atteggiarono e agirono, in punto di riforme, come “minimalisti”.

Le riforme correttive erano intese come obiettivo secondario. Da accogliere favorevolmente, ma in maniera subordinata rispetto alle esigenze strategiche del partito. La difficile situazione economica offri’ al leader democristiano il pretesto per continuare a rinviarle.

 

b)      1964-1966:

   Moro continuo’ a perseguire la politica dei “due tempi” (prima la stabilita’, poi le riforme). Continuando cosi’ a priorizzare gli interessi del partito, Moro, decise di congelare due importantissime riforme.

La prima di queste era la tanto attesa istituzione delle Regioni. Il decentramento regionale significava, per Moro, dare piu’ potere ai comunisti nella “cintura rossa” dell’Italia centrale. La dirigenza democristiana aveva capito che non era il momento perche’ si facesse una simile concessione.

Della seconda, la pianificazione urbanistica, ce ne occuperemo subito dopo.

 

     c) 1966-1968

Una delle poche iniziative prese in considerazione, fu quella in materia urbanistica. Il modo peraltro in cui venne sabotato il progetto di legge del ministro dei Lavori pubblici, il democristiano riformista Fiorentino Sullo, rimane una delle pagine piu’ infelici della Repubblica.

La lungimirante riforma si basava, come noto, sulla concessione agli enti locali del diritto di esproprio di tutte le aree fabbricabili, che una volta urbanizzate, sarebbero state rivendute ai privati, ovviamente a prezzi maggiorati. Avversata da Moro, preoccupato, a ridosso delle elezioni, della rivolta dell’industria edilizia e dei piccoli proprietari urbani.

Inoltre, non c’era stata ne’ la riforma fiscale, ne’ la riforma burocratica, non era stato introdotto il sistema sanitario nazionale, ne’ la riforma dei patti agrari. Era stato impallinato il disegno di legge per l’istituzione della scuola materna pubblica.

Si trattava, quindi e in definitiva, di un bilancio assai misero (11).

Spendiamo, ora, qualche ulteriore considerazione sul decennio ’60.

 

     Analisi storica degli anni ’60.

    Nel decennio ’60 – come gia’ evidenziato – le riforme strutturali, non decollarono.

Il PCI non era disposto ad appoggiare attivamente un programma di riforme, in quanto non riteneva sufficiente allo scopo, una coalizione con la Dc. Si tratto’ di una delle tante “occasioni perdute”.

I socialisti, dal canto loro, capeggiati da Nenni, sottolinearono, ancora una volta,  con il loro comportamento, il distacco tra ideologia (molta) e azione (poca). (12).

Uomini come La Malfa, Saraceno, Sullo, Lombardi, avevano un’idea molto precisa sui limiti delle riforme cosiddette “correttive”.

In particolare, La Malfa, attivo’ un riformismo moderato fondato su alleanze interclassiste, su buone relazioni industriali e sulla spesa per i servizi sociali.

L’esponente repubblicano pensava ad una strategia complessiva intesa a:

-         trasformare i rapporti tra Stato e cittadini;

-          correggere lo squilibrio tra consumi privati e pubblici;

-          affrontare i problemi storici dell’Italia: la poverta’ del Sud e l’arretratezza di gran parte dell’agricoltura italiana;

-          liberare la burocrazia dalla corruzione.

   Peraltro, molti sogni lamalfiani rimasero nel cassetto.

Lucidamente, scriveva (1968): “ e’ venuto il momento di abbandonare il discorso sugli schieramenti e sulle cosiddette alternative, per venire ai problemi di sostanza e di fondo, per stabilire che cosa bisogna fare, come comportarsi per incidere profondamente nella societa’ quale essa e’, e non sulla societa’ quale si crede o si finge di credere essa sia. E questo compito spetta soprattutto alle forze di sinistra”.

  Soggiungo che anche fuori del Parlamento, le forze contrarie alle riforme si dimostrarono molto piu’ forti del previsto.

Fiat, Eni ed Iri, benche’ favorevoli ad un programma di modernizzazione e di pianificazione, non riuscirono ad imporre la loro egemonia sull’insieme del mondo capitalista italiano.

Per combattere uno schieramento simile, i riformisti avrebbero avuto bisogno di un appoggio molto piu’ consistente e convinto all’interno della Democrazia Cristiana. Ma questa era una speranza difficilmente realizzabile.

Moro (come gia’ evidenziato), si trovava maggiormente a suo agio nel mediare tra elementi in conflitto, portandoli quasi sempre all’immobilismo. Era un maestro di tattica politica, un professionista insuperabile del rinvio. Ma aveva scarsa consapevolezza dei reali bisogni di un Paese in rapido cambiamento.

Al suo confronto, Fanfani aveva una personalita’ meno attraente, talvolta scostante, sempre convinto di avere ragione. Sempre pronto a covare propositi di rivincita: per il Governo, per il Partito, per il Quirinale, per tutto. (Il giudizio e’ di Montanelli).

Ottenne comunque piu’ risultati Fanfani nei 12 mesi in cui capeggio’ il primo Governo di centrosinistra (Vedi retro), che non Aldo Moro, con i tre Governi, nei 5 anni successivi (13).

              

         E) Il decennio degli anni Settanta

 

       Nell’agosto 1970, Emilio Colombo, si chiedeva: “Dove siamo mancati? (c’era stato l’autunno caldo NdA.) A me sembra che l’azione riformatrice abbia segnato il passo: per cui le strutture della societa’ civile sono ulteriormente invecchiate, l’intero quadro si e’ deteriorato, le forze sociali non hanno trovato idonei canali di affermazione della loro carica di liberta’. Ecco perche’ il momento del pluralismo…  sta diventando il momento di disordine e talvolta di irrazionalita’” (14).

Peraltro, ci voleva ben altro che un Presidente del Consiglio volenteroso ma transitorio (Colombo) e una coalizione indecisa a tutto per guarire i mali d’Italia.

Pur in questa temperie,gli anni ’70 videro, sulla strada del decentramento, l’istituzione delle regioni e la possibilita’ di indizione dell’istituto referendario.

Sul piano delle riforme sociali: la riforma delle pensioni; lo Statuto dei lavoratori; l’introduzione del divorzio in Italia; la riforma del diritto di famiglia; l’aborto.

Dal 1973 in poi, segnalo due accadimenti di notevole peso economico. Crisi petrolifera: l’Italia, dipendente dal petrolio per oltre il 90% dell’importazione energetica, si senti’ perduta.

Rottura del sistema di Bretton Woods che segno’ la fine della convertibilita’ del dollaro e del regime dei cambi fissi.

Questa miscela, unita ad una inflazione da costi di lavoro, dal declino produttivo, dal degrado della lira, aveva innescato un lungo periodo di turbolenza segnata dalla stagflazione.

Dal 1976 al 1979: un nuovo Governo di “solidarieta’ nazionale” guidato dall’esperto e astuto Giulio Andreotti varo’, con l’espediente della “non sfiducia”, tra l’altro, il Servizio sanitario nazionale. Completando cosi’ lo Stato sociale, nei suoi vari tasselli, anche se molto all’Italiana (15).

Debbo aggiungere che i Governi di solidarieta’ nazionale, pur dominati dal problema della lotta al terrorismo, furono autori di altri tasselli riformatori.

Quali, la trasmissione alle regioni di poteri effettivi, alcune leggi importanti approvate sull’edilizia, ed in materia di salute (legge 180/78, cosiddetta legge Basaglia).

Due notazioni finali.

La prima: il ruolo svolto dai comunisti in questi anni. Di difesa della democrazia, cosi’ come avevano sempre fatto nella storia della Repubblica. E di questo dobbiamo doverosamente dare atto.

La seconda: il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro (9 maggio 1978), tolse di scena, drammaticamente, un personaggio e un protagonista fondamentale nell’assetto democratico, privo’ Berlinguer di un interlocutore nel quale riponeva molta fiducia, segno’ la fine della stagione della solidarieta’ nazionale.   

 

   Riformismo craxiano (gli anni Ottanta)

 

     Dopo il Governo Forlani e i Governi Spadolini, nel 1983, l’Italia registro’ il primo presidente del Consiglio socialista: Bettino Craxi. “Il personaggio piu’ stimolante, piu’ popolare e piu’ detestato della nostra costellazione politica”. (16)

Per lui, erano stati coniati dei neologismi (“decisionismo”, “decisionista”) che, pur impersonando una classe politica piu’ giovane e piu’ efficiente, segnalarono (ex post) anche il troppo di rampante, di aggressivo, di spregiudicato di quella stessa classe. E del suo leader.

Piu’ di un qualsiasi altro politico italiano del decennio, Craxi possedeva un’innata capacita’ di comprensione dei mutamenti in corso nella societa’ italiana, ai quali offri’ una risposta spettacolare. Peraltro, poco convincente e comunque non duratura.

Miglioro’, quello si’, l’immagine dell’Italia che con lui sembro’ – e non era – meno volubile, meno provinciale, meno avvilita da dispute meschine.

Gli apologeti del periodo craxiano, (17) oggi ridotti (anche per ragioni anagrafiche) a una sparuta pattuglia, possono rivendicare alcuni successi. Tra gli altri:

-         riduzione dei punti di contingenza;

-          revisione del Concordato;

-          insediamento della Commissione bicamerale per le riforme (presidente Aldo Bozzi);

-          controllo sul reddito imponibile dei commercianti (Visentini);

-          obbligatorieta’ di un piano paesistico regionale (Galasso).

Dopo la breve parentesi di un nuovo esecutivo presieduto da Ciriaco De Mita, anche il “Caf” (Craxi, Andreotti e Forlani; 1987-1992), accentuo’, nell’ultima stagione della vecchia classe politica italiana, il graduale declino della capacita’ di governo dei partiti dominanti.

Tra le “luci” del periodo: legge Amato (218/90) che trasformava le banche da enti pubblici a enti privati; legge Mammi’ (223/90) sulle telecomunicazioni; legge Martelli (39/90) sull’immigrazione; legge (142/90) sull’ordinamento delle autonomie locali; legge (241/90) in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti pubblici.

 

 La sinistra al potere. Tangentopoli.

 

      L’interregno di Amato (1992-1993) – che con molto fiuto, pur tributando a Craxi le inevitabili solidarieta’, andava sbiadendo il suo marchio socialista per sottolineare il suo ruolo istituzionale – si segnalo’ per una serie di provvedimenti.

Severa ed imponente finanziaria di novantatremila miliardi di lire, riforma di diritto privato del pubblico impiego, nuova legge sull’elezione dei sindaci.

Dopo Amato, resasi necessaria la creazione di un governo che apparisse sganciato dai partiti e si prendesse cura dei conti pubblici con l’energia richiesta dalla situazione, subentro’ (nominato da Scalfaro) Carlo Azelio Ciampi. Rispondente a tutti i requisiti richiesti.

Furono varate le riforme inerenti il costo del lavoro, la riforma Cassese sulla pubblica amministrazione e (in specie) la riforma elettorale in senso maggioritario e bipolare. Gia’ stabilita per il Senato, a seguito di pronunciamento referendario popolare (18 aprile 1993).

Sul traghettamento di Ciampi del Paese verso le terre inesplorate della Seconda Repubblica, si abbatte’ il ciclone di Tangentopoli.

E’ ancora presto per un giudizio storico su Tangentopoli. Peraltro il “bilancio finale” dello stesso, non ci sembra del tutto positivo. La vicenda giudiziaria ha influito sulla vita politica italiana e quindi su un sistema di democrazia matura, in modo inaccettabile.

Al Paese fu imposta una rappresentazione della realta’ estremamente riduttiva.

Al contempo, una narrazione della storia della Repubblica che si riassumeva nel teorema unidirezionale: cinquant’anni di consociativismo e di partitocrazia (“i cattivi”).

“I buoni” – i campioni del Grande Mutamento e della svolta palingenetica – erano i magistrati, il movimento referendario e la Lega. (18)

I vecchi partiti scomparvero, altre famiglie politiche apparvero sulla scena. Inedite o sulle ceneri delle precedenti.

 

  L’anno di Silvio Berlusconi: 1994.

 

     La sinistra, nel 1993, nonostante le sue esitazioni, non era mai apparsa cosi’ vicina al potere. Infatti, nel dicembre del 1993, l’alleanza “progressista di sinistra” aveva conquistato le amministrazioni comunali di alcune grandi citta’ (Roma, Venezia, Napoli, Palermo).

Silvio Berlusconi, amico di Craxi, che aveva fornito (1984) all’imperatore delle televisioni private, un aiuto prezioso per ridare vista alle televisioni accecate da alcuni pretori, decise di “scendere in campo”. “Per costruire insieme, per noi e i nostri figli, un nuovo miracolo italiano”.

Berlusconi, assunto il ruolo di carismatico leader di Forza Italia, ha nutrito sin da subito l’aspirazione a diventare una figura presidenziale forte in un sistema politico italiano profondamente rinnovato. Un formidabile progetto egemonico, da veicolare tramite i mass-media e le aree del consumo e del tempo libero.

Un mix di risolutezza seguita da precipitose ritirate. Cosi’ in materia di riforma delle pensioni, di autonomia della Banca d’Italia, della magistratura (ritiro del decreto Biondi).

La fine giunse all’improvviso. Nel dicembre del 1994, Berlusconi, colpito da un’informazione di garanzia per concorso in corruzione, venuto meno l’appoggio della Lega, rimise il proprio mandato nelle mani di Oscar Luigi Scalfaro.

     

La vittoria dell’Ulivo (1996-2006)

 

     Dopo la parentesi del Governo Dini, nato come garanzia per Berlusconi e rivelatosi ben presto il primo dei cinque governi di centrosinistra (Prodi due volte, D’Alema, Amato) che avrebbero guidato il Paese tra il 1995 e il 2006, Romano Prodi vinse le elezioni del 1996.

  La cultura di riferimento – almeno pragmaticamente – era di cifra riformista, originante da quella liberale, razionalizzatrice, attenta alla disciplina finanziaria della Banca d’Italia. Veniva riportata una grande vittoria: l’onorabilita’ del “vincolo esterno” e l’ingresso dell’Italia nell’Europa dell’Unione monetaria.

Dopo questo traguardo, il centrosinistra si perse.

Giuliano Amato, cosi’ commentava ex post (2001): “se un difetto abbiamo avuto, in questi anni, e’ stato quello di non aver saputo collegare a sufficienza i singoli capitoli delle nostre riforme ad un disegno generale, coinvolgente, che da’ la percezione di portare il Paese verso una societa’ futura migliore” (19).

 La vecchia idea delle riforme di struttura, cara ai vecchi comunisti e ai socialisti italiani, peraltro quasi mai perseguita a livello operativo e strategico (v. retro), pur da tempo abbandonata, non era stata sostituita da una aggiornata elaborazione.

E’ mancata quindi una risposta convincente alle esigenze del Paese in una complessa fase di transizione che richiedeva forza di idee, rigore morale, capacita’ progettuale. In vero non possedute.

 In un agile pamphlet, Nicola Rossi (20), rafforzava questo convincimento con una serie di considerazioni in parte da noi gia’ evocate sostanziantesi, tra l’altro, in una “debolezza culturale dell’Ulivo”.

Uguale giudizio, parzialmente negativo, puo’ esprimersi per il Governo D’Alema (1998-2000), di Giuliano Amato (2000-2001) e sul biennio (2006-2008) del Prodi bis.

Basti pensare che il programma dell’Unione (2006) era contenuto in un documento di 281 pagine, firmato dai 18 segretari di altrettanti partiti. Una sorta di “libro dei sogni”, una summa teologica, un breviario per tutte le esigenze. Bisognava conciliare, ecumenicamente, le aspettative le piu’ diverse, da quelle dei cattolici moderati a quella della sinistra piu’ radicale. (“Mai nemici a sinistra”, e’ stata una saggia dottrina conservatrice perche’ teneva imbrigliato l’estremismo).

     Comunque, pur con queste diseconomie, pur con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, i governi di centrosinistra, a partire dal 1992, raggiunsero qualche successo e attivarono riforme di struttura.

 Ricordo, alla rinfusa, le liberalizzazioni (“una lenzuolata”) di Bersani, la stretta sul fisco dovuta a Vincenzo Visco, viceministro dell’Economia, la riforma della Sanita’ con la prima regionalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale (D.Lgs 502/1992), la riforma Bassanini in materia di pubblica amministrazione e pubblico impiego. Ricordo altresi’ la riforma del Titolo V della Costituzione. (21)

     Un ultimo cenno concerne la problematica delle “primarie”: uno strumento, finalizzato a ridare lo “scettro al principe”, cioe’ al popolo, diventato (in buona sostanza) una nuova, e diversa, forma patologica della democrazia italiana. Per due motivi:

-         per una strutturale fragilita’, sul piano della cultura politica e su quello specificatamente organizzativo;

-          per una inclinazione “carismatica” e “plebiscitaria” assunta sin dall’inizio.

 

Il Governo Berlusconi (2001-2006; 2008-2011): la politica sovraeccitata

 

     Nella sua azione governativa, quasi ventennale, ed ora traumaticamente spezzatasi, Berlusconi, ha sostanzialmente tradito le aspettative riformistiche originate dalla “primavera liberale” del 2001.

 Molte le riforme lasciate morire lentamente o in maniera violenta.

Alla rinfusa: la riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori; la riforma costituzionale, cassata dal referendum abrogativo (2006); le misure per il mercato del lavoro; le misure per il Mezzogiorno; la riforma dei Comuni e delle Province; la riforma della giustizia, della quale si parla dal 2001, presentata dal Ministro Angelino Alfano, solo a fine ottobre 2010.

 Le riforme strutturali, portate a termine in questo lunghissimo lasso di tempo e con una maggioranza in Parlamento mai registratasi in precedenza, possono cosi’ sintetizzarsi.

Per il primo periodo: riforma della disciplina del lavoro (D.Lgs 276/2003); riforma delle pensioni (Legge 243/2004); nuova legge elettorale (Legge 270/2005).

 Per il secondo: riforma della scuola e dell’universita’ (Legge 169/2008 e Legge 240/2010); riforma del processo civile (Legge 69/2009); pacchetto sicurezza (Legge 94/2009); federalismo fiscale (Legge 42/2009 e gli otto decreti attuativi); riforma della Pubblica amministrazione (D.Lgs 150/2009).

 Per un Governo etichettatosi come “Governo del fare” versus “l’immobilismo” della sinistra, francamente non sembra molto.

In specie, ove si tenga conto, che sono state fatte varare dal Parlamento (dal 1994) circa 200 leggi in materia penale e n.37 leggi ad personam. Dalle rogatorie alla riforma dei reati societari e alla legge Gasparri sulle televisioni; dalla cancellazione della tassa di successione al lodo Alfano.

Berlusconi: ha dedicato, infine, gran parte del suo tempo alla giustizia, ma l’efficienza dei tribunali non e’ aumentata.

 

     Perche’ questo gap cosi’ rilevante?

-         Una sorta di “dispotismo democratico”, cioe’ di una forma patologica, a valenza plebiscitaria, che ha contrassegnato la democrazia in Italia.

-         Per Ciliberto (22), gli effetti del dispotismo democratico sulla societa’ italiana, possono cosi’ sintetizzarsi.

Sul piano sociale, un fortissimo acuirsi delle disuguaglianze; una strutturale riduzione, e un livellamento verso il basso dei redditi popolari; una sostanziale incapacita’ di pensare al mutamento extraruoli e a gerarchie sociali stabilite (per ribaltarle).

Sul piano politico, l’affermazione, a tutti i livelli, del modello leaderistico e di un potere centrale di tipo carismatico; una subordinazione della politica all’amministrazione. Quindi una tendenziale dequalificazione della classe politica e parlamentare (“la peggiore, senza alcun dubbio, della storia repubblicana”).

 Ricordo che la categoria del “dispotismo democratico” fu delineata da Tocqueville, alla conclusione del suo saggio sulla “Democrazia in America”.

-         Un “bipolarismo all’italiana” che ha irrimediabilmente avvelenato i pozzi del consenso, della moderazione, degli interessi e dei valori “super partes”.

-          Una perversa legge maggioritaria ha separato i “designati” dai cittadini, ha tolto al Parlamento la sua virtu’ rappresentativa.

-  Una maggioranza parlamentare che ha perduto il suo significato storico, poiche’ siamo di fronte ad una semplice propaggine del potere di un autocrate, che premia famigli e designa successori, riceve suppliche da chi vuole andare ad occupare qualche posto di governo, dispone delle cariche pubbliche come di un pezzo del suo patrimonio personale.

-         Uno scadimento della vita pubblica: corruzione, pratica endemica degli scambi di favori, sfruttamento di risorse pubbliche a vantaggio di interessi privati, la diffusa mafiosita’ dei comportamenti.

E una sorprendente maggioranza degli italiani che approva e nutre questa pratica. Una sintonia profonda, quindi, tra cio’ che Berlusconi interpreta e la visione del mondo (individualismo auto centrato e assertivo) di buona parte dell’elettorato.

Non sono quindi le norme che vanno rispettate, ma sono quest’ultime a doversi adeguare ai desiderata dei cittadini e, a maggior ragione, dei leader. 

 

Il Governo dei tecnici

 

     E siamo all’oggi.

Il Parlamento quasi si ferma per i veti incrociati; si annunciano una riforma “epocale” della giustizia e l’approvazione del processo breve funzionale agli interessi del Premier (Processo Mills); viene varato (Consiglio dei Ministri, 13 aprile 2011) il “Piano nazionale per le riforme”, da sottoporre al vaglio di Bruxelles (entro il mese di aprile 2011). Da convertire in un decreto da approvare entro giugno 2011.

 Poi la situazione economica e soprattutto finanziaria, trascorso il periodo estivo, precipita.

La Banca Centrale Europea sollecita il Governo italiano ad attuare, rapidamente, una serie di misure e di riforme (pensioni, lavoro, liberalizzazione degli Ordini e dei servizi pubblici, ecc.); la lettera di intenti, viene ritenuta insufficiente e dilatoria, dall’Unione Economica. Bisogna darsi una scossa e, questa volta, sollecitamente, in maniera seria e radicale.

Caratteristiche – queste – non posseduta dalle forze politiche in campo. Attardate, da sempre, in un gioco allo scaricabarile, di rinvii eretti a sistema, di fiducia cieca nello stellone salvifico.

Da troppi anni questi politici hanno fatto piu’ politica di partito che quella istituzionale, incuranti dei grandi cambiamenti della realta’ del mondo e indifferenti alle vecchie e nuove poverta’.

Avvertimenti urgenti ci vengono dai giovani che riempiono le piazze e gridano la loro rabbia per il disagio di un presente che li mortifica e di un futuro che non li rassicura.

Cio’ premesso, va detto che all’origine di questo fallimento, ci sono due deficit. Un deficit di riformismo (e di mentalita’ riformistica) in ampi settori della sinistra, e un deficit di liberalismo (e di mentalita’) in ampi settori della destra.

Il 12 novembre 2011, Berlusconi, dopo l’approvazione della legge di stabilita’, rassegna le dimissioni nella mani del Presidente della Repubblica.

E’ stata varata, mentre scriviamo questo saggio, una manovra di emergenza finalizzata al risanamento dei conti pubblici. Quindi, piu’ all’insegna, almeno in questa prima fase, di pressione fiscale che di crescita ed equita’.

Casa, auto e pensioni sono scelte dolorose, ma obiettivi facili e di pronto realizzo.

Con poco tempo a disposizione e il fiato sul collo delle varie baby sitter (mercato, Ue, Bce), Monti e i suoi ministri non potevano sbagliare il tiro. Dando cosi’ una risposta tranquillizzante all’Europa e ai mercati, facendo cosi’ rialzare la credibilita’ dell’Italia, il cui livello, negli ultimi tempi, era pari allo zero.

Piu’ difficile e piu’ delicato sara’ il compito successivo del nuovo Dicastero che dovra’, gradualmente ma con decisione, abbattere il muro corporativo, le lobbie stratificate, le resistenze dei politici, pensosi piu’ del loro tornaconto che degli interessi degli italiani.

 Siamo in recessione e sara’ arduo risalire la china. Come arduo, ma non impossibile, sara’ ricostituire la fiducia ed avviarsi verso i sentieri angusti e stretti della ripresa e della crescita.

Ricordo solo tre dati: pressione fiscale al 45,5% del Pil; ottocentomila posti di lavoro a rischio; centoventi miliardi sommersi.

 

Peraltro vi e’ un’Italia della produzione, del rischio e dell’eccellenza, che non si rassegna. Ci sono tanti cittadini che hanno senso di responsabilita’, consapevolezza dei loro doveri oltre che dei loro diritti, che vogliono continuare a lavorare per l’edificazione di una societa’ piu’ giusta, meno sperequata, meno egoista dell’attuale.

La responsabilita’ tra generazioni impone di predisporre le cose perche’ i giovani che verranno dopo di noi trovino un mondo piu’ vivibile. Oggi cio’ che lasciamo in dote e’ meno di quello che abbiamo ricevuto, tenendo conto che la coesione umana e la giustizia sociale sono parte irrinunciabile di questo patrimonio.

 In altri termini, l’Italia non cambiera’, se non vogliamo che cambi. Se non ci convinciamo di essere attori, non spettatori. Se vogliamo l’istruzione, la sanita’, le pensioni e la qualita’ della vita, dobbiamo lavorare meglio, lavorare piu’ a lungo e smettere di ingannarci a vicenda.

Siamo su un piano inclinato: o si sale o si scende. Tertium non datur.

 

 

Notazioni conclusive (le riforme a costo zero)

 

     Ritorniamo all’elaborazione teorica, per qualche considerazione finale.

 Ribadiamo un concetto che, sul punto, appare decisivo.

 Un riformismo ragionevole, di stampo liberale, graduale (23), presuppone un impegno comune e una leale cooperazione, pur nella diversita’ dei ruoli. Solo con una sorta di inedita fase costituente, terminata la stagione emergenziale, restituite valenza, dignita’ e autorevolezza alla politica, con una piu’ presentabile classe politica, originata da elezioni raccordanti eletti ed elettori, potranno sciogliersi altri nodi strutturali. Da tempo, in agenda, e che dovranno essere implementati rispetto a quelli contenuti nel decreto salva Italia.

 Penso alla riforma fiscale, alla Carta delle autonomie, alla fine del bicameralismo perfetto, alla creazione del Senato federale, alla riforma della giustizia, alla riduzione dei parlamentari, alla riforma degli ammortizzatori sociali, alla istituzione di un (solo) tribunale per ogni provincia.

 Il Paese e’ praticamente fermo da quindici anni: tre quinquenni durante i quali l’economia mondiale e’ cresciuta come mai in passato.

Nonostante la violenza della crisi globale, il 2009 e’ stato, almeno per una parte del mondo, solo una parentesi. Da noi invece sembra un incubo lungo vent’anni. Il vento della crescita soffia in varie parti del mondo, ma non tornera’ mai a soffiare in Italia se non cambiamo atteggiamento. L’Italia e’ un Paese importante e per ricominciare a crescere, deve necessariamente riformarsi.

 Cio’ detto, un problema. Ci sono le riforme a costo zero? In altri termini, si possono cambiare le cose senza chiedere il conto a Pantalone?

 Per chi scrive, la risposta e’ negativa. Anche le riforme a costo economico zero hanno spesso un costo politico notevole. Cio’ in quanto implicano la rottura di abitudini consolidate, l’eliminazione di rendite e privilegi. Sono impopolari, dacche’ bisogna lavorare di piu’ e soprattutto in modo diverso. Hanno un rendimento differito. Non generano rapidamente una maggiore crescita e un maggior benessere che il Governo possa vantare al momento delle elezioni. Perche’ i loro effetti maturino, possono essere necessari piu’ cicli elettorali.

 Questo rende difficile per i politici sostenere uno sforzo riformatore, in tutti i Paesi. Nel nostro di piu’. In parte perche’ lo sforzo e’ piu’ gravoso e impopolare, a seguito del lungo immobilismo dei decenni scorsi.

 Ma soprattutto perche’ – come gia’ evidenziato – il bipolarismo feroce che caratterizza il nostro sistema politico impedisce un orientamento riformatore condiviso e disposto a correre, per la classe politica, il rischio dell’impopolarita’.

 A questo orientamento se ne oppone un altro, in base al quale, decisive riforme possono essere realizzate “senza aumentare di un solo Euro il debito pubblico”.

Gli autori della proposta hanno espresso il loro convincimento in un leggibile saggio: T. Boeri e P. Garibaldi, Le riforme a costo zero, Chiare lettere, 2011.

 Per i due autorevoli economisti, le proposte in questione toccano dieci campi. Le riassumiamo:

-         La prima riforma riguarda il capitale dell’immigrazione. Occorre investire nell’integrazione degli immigrati riducendo al contempo i costi per chi li accoglie;

-          la seconda affronta la transizione tra scuola e lavoro tramite il contratto unico a tutele progressive e l’apprendistato universitario;

-          la terza riguarda la contrattazione salariale e l’introduzione di un salario minimo;

-          la quarta concerne la macchina dello Stato, premiando le amministrazione, piuttosto che i singoli;

-          la quinta tocca gli ordini professionali con professionisti piu’ liberi e ordini trasparenti;

-          la sesta serve a incoraggiare il lavoro di piu’ persone nella stessa famiglia; e’ una miniriforma fiscale che trasforma le detrazioni per coniugi e gli altri familiari a carico in sussidi condizionati all’impiego;

-          la settima riforma si rivolge al sistema pensionistico, riforma peraltro gia’ attuata da Monti;

-          l’ottava si colloca all’intersezione fra mercato del lavoro e mercati finanziari e prevede la riforma della legge sull’usura, il superamento delle interconnessioni presenti a vari livelli nel nostro sistema di corporate governance, un’Autority per le fondazioni e la separazione fra banche e societa’ di gestione del risparmio;

-          la nona riguarda la selezione della classe politica, sia in termini quantitativi che sul versante del cumulo dei compensi;

-          la decima, infine, vuole costruire un partito a favore delle riforme. Lo fa allargando il voto ai sedicenni e cambiando i criteri di calcolo delle quiescenze.

  Gli autori cosi’ concludono: “della crescita conosciamo gli ingredienti, ma non la ricetta esatta. E’ evidente che in Italia mancano oggi gli ingredienti per tornare a crescere e queste riforme-ingredienti sarebbero una condizione necessaria, anche se magari non sufficiente, perche’ ritorni il vento della crescita”.

  

 

Appendice

 

     Il riformismo viene ad impattarsi, sul piano economico, con il capitalismo; su quello etico, con la dottrina sociale della Chiesa.

Vediamo, in breve, entrambe le coordinate.

 

Riformismo e capitalismo

 

     E’ ormai possibile distinguere nettamente, nella seconda meta’ del Novecento, due fasi dello sviluppo capitalistico (24).

 La prima, tendenzialmente dirigistica, dalla fine della guerra agli anni ’70.

La seconda, prevalentemente mercatista, dagli anni ’70 – che segnano uno spartiacque – alla fine del secolo.

 La prima e’ per i paesi industriali, una fase di intensa crescita, ma anche di benessere sociale diffuso, di alta occupazione e di riduzione delle distanze sociali.

E’ l’epoca di un nuovo ordine internazionale: cambi fissi, disciplina dei flussi finanziari internazionali. E’ l’epoca delle politiche macroeconomiche alla Keynnes e delle politiche sociali alla Beveridge. Si coniugano stabilita’ monetaria e sviluppo, sullo sfondo di una indubbia convergenza sociale. E in questo senso che si puo’ usare la metafora della seconda belle-epoque (25).

 Negli anni ’70 il clima cambia bruscamente. Si propagano, promosse dalla svalutazione del dollaro e dalla successiva esplosione del petrolio, le onde dell’inflazione. Anzi, della stagflazione. Fallisce la regolazione Keynesiana. Crolla l’ordine di Bretton Woods (vedi retro).

 E siamo ai giorni nostri. Alla terza fase del capitalismo.

L’obiettivo di assistere il cittadino “dalla culla alla tomba”, secondo lo slogan popolare introdotto dal piano Beveridge, si mostra costoso ed esposto ad abusi. Si delinea sempre piu’ la necessita’ di unire liberta’ e garanzie con il principio di responsabilita’.

Se il primo capitalismo e’ quello delle liberta’ e il secondo quello delle garanzie, il terzo, in corso, presuppone l’estensione delle responsabilita’ individuali nel perseguire gli obiettivi di benessere e nel fronteggiare i rischi della vita.

Ci troviamo, ormai, in una societa’ libera, laica, ma in cui emergono molti spezzoni di cristianesimo laicizzato.

In una societa’ aperta che “respinge l’autorita’ assoluta dell’ovvio e del tradizionale, ma tenti di tutelare, sviluppare e stabilire tradizioni vecchie e nuove valutate sulla base di standard di liberta’, umanita’ e razionalita’ critica” (Karl Popper).

 Anche questo altro capitalismo entra in crisi. Soprattutto per numerosi fattori:

-         l’illusione, da sottocultura economica, che si potessero garantire, indebitandosi, retribuzioni piu’ alte e coperture sociali piu’ estese;

-          l’alto tasso di burocratismo della struttura amministrativa;

-          l’inadeguatezza delle classi dirigenti;

-          La preminenza della finanziarizzazione sull’economia reale;

-          un capitalismo senza freni e senza condizionamenti (26);

-          un’economia globalizzata e mondializzata, dove “tutto si tiene”.

     Viene, in sostanza, ad essere minata la credibilita’ morale del capitalismo, inclinata la sua legittimazione etica, scolorita la sua vitalita’ storica.

Abbiamo deresponsabilizzato l’imprenditore, senza tuttavia eliminarlo. Abbiamo aperto il varco all’intervento dello Stato, senza tuttavia programmarlo. Abbiamo corrotto, al tempo stesso, il socialismo e il capitalismo. Non potevamo far peggio.    

Torna il “fantasma della poverta’”; cresce l’indebitamento degli Stati; aumenta il divario tra ricchi e poveri della terra.

Occorre allora, in termini macro, riindividuare il rapporto Stato-mercato con uno Stato sempre piu’ regolatore e meno opprimente e con un mercato, sempre piu’ legato all’etica e sempre meno incentrato sul benessere personale egoistico (27).

Il passaggio presuppone: immaginazione progettuale, innovazione politica, democrazia sostanziale. Quindi una buona dose di riformismo (28). In un mix di realta’ possibile e di un’utopia concreta. Tra i cosmopoliti e i locali. Tra i coraggiosi e gli impauriti. Tra i fiduciosi e i sospettosi.

I primi riusciranno a vincere le loro battaglie solo se acquisteranno un’ampia egemonia culturale, se convinceranno la societa’ che i loro obiettivi sono benefici soprattutto per i ceti piu’ svantaggiati, che la competizione e il merito possono convivere con le sicurezze necessarie ad una buona vita.

       

 La Chiesa e il riformismo

 

     Qualche considerazione retrospettiva.

 Gia’ durante il Medioevo, la Chiesa attraverso le elaborazioni di San Tommaso ‘D’Aquino, cerco’ di mettere al commercio obblighi e divieti (“giusto prezzo”; divieto del prestito ad interesse).

I libri mastri di Francesco Marco Datini, il famoso mercante di Prato, erano intitolati “Cho’l nome di Dio e di guadagno” (nel nome di Dio e di guadagno) (29).

 Comunque, nonostante ostilita’, diffidenze e limitazioni poste al commercio dalla Chiesa, si formo’ e si consolido’ (XI secolo – XV secolo) una forte classe di mercanti, molto solida anche nella nostra Lucca. 

 I Medici, mercanti e banchieri, diventeranno i padroni assoluti di Firenze.

 La Chiesa assunse un atteggiamento (in certo qual modo) piu’ conciliante; rimase invece ferma la condanna all’usura, sancita da vari Concili.

 La Rivoluzione industriale, che parte dall’Inghilterra intorno al 1750 e si completa verso il 1870, accelero’, spostando il centro della produzione dalla terra alla fabbrica, tutti i processi che portano alla circolazione del denaro.

Si scopri’, sul versante economico, la legge di Say: “L’offerta crea la domanda”.

Su quello sociale: “La questione sociale”, vale a dire l’indissolubile matrimonio fra ricchezza e poverta’, che ci ha accompagnato fino ai nostri giorni e che oggi e’ piu’ viva che mai.

 Saltarono i limiti che la tradizione cristiana medioevale aveva tentato di mettere all’istinto acquisitivo dell’individuo e alla sua sete di guadagno. Nacque la Riforma. Un apparato teologico e concettuale che ribaltava l’intera tradizione medioevale e si sposava perfettamente con il nuovo corso economico, dandogli legittimazione morale. Si trattava di quell’etica protestante che, secondo un noto saggio di Max Weber, sarebbe alla base dello spirito del capitalismo o addirittura coinciderebbe con esso.

 Max Weber spiegava i diversi passaggi attraverso i quali il calvinismo originario, filtrato dalle esperienze puritane, metodiste, pietiste, diventa una teologia dell’azione.

Di quella economica, man mano che l’industrializzazione si veniva affermando.

 Anche il successo nel lavoro, purche’ ottenuto con un’applicazione metodica, severa, ascetica e il relativo guadagno, sono un segno dello stato di Grazia.

 Siffatta teorizzazione (e siamo all’oggi), si patologizza: il denaro, a livello individuale, diviene la misura di tutte le cose. Tutto e’ tradotto e valutato in termini di denaro. Tutto e’ business. Anche le attivita’ piu’ spirituali e i sentimenti piu’ sacri ne vengono coinvolti e, spesso, travolti.

 A livello oggettivo, la stabilita’ della moneta, le valute, i cambi, i prezzi, il potere d’acquisto, i conti con l’estero, la bilancia dei pagamenti, l’esposizione finanziaria diventano i principali problemi dello Stato.

Al centro della politica c’e’ l’economia. E al centro dell’economia c’e’ il denaro.

 L’Europa, da progetto culturale, sociale e giuridico, da utopia, diventa realta’ fattuale, immiserita, brutalizzata: “L’Europa delle monete”.

 La Chiesa, in un certo qual modo, si adegua, si aggiorna, si secolarizza. Passando da una visione diciamo cosi’ anticapitalista (Leone XIII: Rerum novarum, 1891), ad una visione “distributiva” del capitale (Paolo VI: Populorum progressio, 1967; Giovanni Paolo II: Centesimus Annus, 1991; Benedetto XVI: Caritas in veritate, 2009).

 Il mercato non e’ un idolo, ma un’istituzione sociale; come tale, soddisfa la domanda, ma non sempre i bisogni.

 Anche sul piano politico-istituzionale, la Chiesa ha compiuto notevoli passi avanti, sul cammino del riformismo. Passando dal “Non expedit” (non conviene), dal “Non possumus” di Pio IX, ad atteggiamenti piu’ meditati e di apertura.

 Dal Partito popolare di Sturzo (1919) alla risoluzione della Questione romana, da atteggiamenti anti-unitari all’Enciclica Pacem in Terris di Giovanni XXIII, dove si afferma la liberta’ degli uomini, di tutti gli uomini, (credenti e non credenti) di pensare ed agire sulla base di valori e di diritti storicamente riconosciuti dal nostro tempo. E conquistati contro i residui medievali e confessionali del mondo moderno (30).

 Dall’attendismo ai “cattolici senza partito” che trovano oggi uuna forte realizzazione nel volontariato, nella carita’, nella condivisione.

 Sostanzialmente, “una cultura del rinnovamento nella continuita’, una cultura del dialogo e del riconoscimento delle ragioni dell’avversario”. Passando, sulle orme del riformismo, (31) “dalla democrazia cristiana alla democrazia dei cristiani” (32).

 Una democrazia che “ha bisgono di nuove aristocrazie morali, culturali e religiose. E la laicita’, che e’ una conquista condivisa, ha bisogno di un’anima religiosa” (33).

 L’essere laico, in definitiva, non coincide con un atteggiamento antireligioso o ateo: e’ una dimensione pubblica che prescinde dalle credenze, e’ il fondamento dell’etica pubblica, e’ lo statuto della cittadinanza. (34).

 

Commiato

 

     L’uscita di questo saggio coincide con i primi giorni del 2012.

 Formulo, per l’occasione, un auspicio e tre considerazioni, per il nuovo anno.

 L’auspicio: possa il Governo italiano continuare a mettere in  pratica il programma riformatore su cui ha avuto la fiducia. Potrebbe cosi’ aprirsi per le stesse forze politiche che hanno finora stentato a ritrovare il loro baricentro, una grande occasione.

Con le riforme approvate, ivi comprese quelle istituzionali e la legge elettorale, potrebbe davvero concludersi l’infinita transizione italiana. Per lasciare posto alla Terza Repubblica e a un’autentica democrazia compiuta.

Che i partiti sappiano e possano adoperarsi in questa direzione, e’ doveroso dubitare. Ma e’ proprio nei tempi calamitosi che talvolta si affermano leadeership democratiche, capaci di tenere insieme etica della convinzione ed etica della responsabilita’, volonta’ politiche, e persino visioni strategiche altrimenti inimmaginabili. Non e’ moltissimo, e’ pero’ su questo che tocca fare affidamento.

La paura del futuro deve cedere il passo alla speranza dell’avvenire.

     La prima considerazione: non si potra’ ritornare, appena finito di celebrare il Centocinquantenario “in un clima festoso e riflessivo, aperto e solidale, alle incomunicabilita’, alle estreme partigianerie della politica quotidiana. Quel lievito di nuova consapevolezza e responsabilita’ condivisa, continuera’ ad operare sotto la superficie delle chiusure e rissosita’ distruttive, e non favorira’ i seminatori di divisione, gli avversari di quel cambiamento di cui l’Italia e gli italiani hanno bisogno per superare le ardue prove di oggi e di domani”. (35).

     La seconda considerazione: dobbiamo ritrovare la fiducia in noi stessi. Nell’immenso potenziale di cultura, lavoro e sviluppo del nostro Paese. Ricordiamo chi siamo, e quanto possiamo fare. In tempi di crisi, non c’e’ regalo migliore. Ed e’ alla portata di tutti.

     La terza considerazione: c’e’ bisogno di un patto civile per le riforme, dove tutti rinuncino a qualche cosa, per guadagnare tutti.

  Se Monti non e’ capace di farlo, chi mai potra’ farlo?

          

 

Note

 

     1) Per un’analisi storico-politica del riformismo, rimando a G. Sapelli, Sul riformismo, B. Mondadori, 2003 e G. Vacca, Il riformismo italiano, Fazi Editore, 2006.

 

     2) V., P. Nenni, Intervista sul socialismo italiano, Laterza, 1977.

 

     3) Tre le principali correnti socialiste, nel 1919. La prima guidata da Bordiga, favorevole all’astensionismo; la seconda da Serrati, fautrice della violenza operaia; la terza da Lazzari, favorevole alla partecipazione al voto delle elezioni del 1919. Cfr. B. Vespa, Il cuore e la spada, Mondadori, 2010.

 

     4) F. Turati, Socialismo e riformismo nella storia d’Italia (Scritti politici 1878/1932), Feltrinelli, 1979.

 

     5) F. Turati, ibidem.

 

     6) S. Romano, Le italie parallele, Longanesi, 1996.

 

     7) Cfr, N. Lenin, L’estremismo, malattia infantile del comunismo, 1920.

 

     8) R. Lombardi, Scritti politici, Venezia, 1978.

 

     9) L. Valiani, L’Italia negli anni del centrismo, Roma, 1990.

 

     10) P. Ginsborg, Storia d’Italia 1943-1966, Einaudi, 1998.

 

     11) G. Tamburrano, Storia e cronaca del centrosinistra, Milano, 1971.

 

     12) Rimando, per una puntuale ricostruzione delle vicende della sinistra italiana (dal 1945 al 2005) a L. Covatta, Menscevichi. I riformisti nella storia dell’Italia repubblicana, Marsilio, 2005. La debolezza del riformismo – per Covatta – risalente nel tempo e concernente fenomeni economici, sociali, culturali, oltre che politici, e’ da imputare a due cause: - la forte prevalenza del Pci sul Psi; - la rapida ascesa della Democrazia cristiana, tenuta insieme da legami confessionali piu’ che da orientamenti coerenti di politica economica.

Poi: il bipartitismo imperfetto (impossibilita’ di alternanza); gli effetti di trascinamento del passato anche dopo il crollo del muro di Berlino; l’incomprensione delle conseguenze polarizzanti della legge elettorale, fecero il resto.

 

     13) Si chiede, forse alquanto provocatoriamente, I Pietra, Moro, fu vera gloria? Milano, 1983.

 

     14) G. Tamburrano, Storia, op. cit.

 

     15) U. Ascoli, Welfare State all’italiana, Bari, 1984. Molta “previdenza”; poca “assistenza”. Mi permetto di segnalare altresi’ A. Talia, lo Stato Sociale tra crisi e riforma, Dir. e Lav. nelle Marche, settembre- dicembre 2010.

 

     16) A. Ghirelli, L’effetto Craxi, Milano, 1982; M. Pini, Craxi, Milano, 2006.

 

     17) G. Acquaviva e L. Covatta, La grande riforma di Craxi, Marsilio, 2010. “Qualsiasi possa essere l’opinione su Bettino Craxi, un dato e’ certo: ha ridato slancio e peso politico al suo partito, lo ha fatto protagonista della scena”.

 

     18) Il giudizio, condivisibile, e’ di B. Vespa, Il cuore, op.cit.

 

     19) P. Gisborg, Berlusconi, Einaudi, 2003.

 

     20) N. Rossi, Riformisti per forza, Il Mulino, 2002.

 

     21) V. Chiti, La sinistra possibile. Il Partito democratico alle prese con il futuro, Roma, 2009; B. de Giovanni, A destra tutta. Dove si e’ persa la sinistra? Marsilio, 2009.

 

     22) M. Ciliberto, La democrazia dispotica, Laterza, 2011.

 

     23) Si va diffondendo, sulla scorta delle esperienze gia’ maturate negli Stati Uniti in alcuni settori (sanita’, istruzione, mercato del lavoro), una sorta di “riformismo per esperimenti”. Si avviano, ex ante, iniziative pilota per sondare gli effetti delle nuove regole.

In proposito, e’ stato tenuto a Lucca (marzo 2011) un convegno internazionale organizzato dalla Fondazione Giuseppe Pera, dalla Banca d’Italia e dal Cepr di Londra.

 

     24) Nell’epoca moderna – sostiene Tocqueville – democrazia e dispotismo non sono giustapposti. Il dispotismo ha radici profonde proprio nella democrazia, nell’uguaglianza. La politica – per Tocqueville – ha il compito decisivo di ricostituire i “vincoli” spezzati, attraverso una serie di associazioni politiche e sociali.

 

     25) F. Barca, Storia del capitalismo italiano, Donzelli, 1997.

 

     26) E. Luttwak, Il turbo capitalismo, Mondadori, 1995.

 

     27) Amartya Sen, Etica ed economia, Laterza, 1987.

 

     28) G. Ruffolo, La qualita’ sociale, Laterza, 1985; A. Reichlin e G. Ruffolo, Riformismo e capitalismo globale, Passigli Editore, 2003. Per i rapporti tra democrazia e mercato, v. M. Salvati, Capitalismo, mercato e democrazia, Il Mulino, 2004.

 

     29) M. Fini, Il denaro “Sterco del demonio”, Marsilio, 1998.

 

     30) S. Ristuccia, Intellettuali cattolici tra riformismo e dissenso, Ed. di Comunita’, 1975. Ricorda la De Monticelli (R. De Monticelli, La questione morale, Cortina Ed. 2011) che la liberta’ di coscienza fu riconosciuta “giusto in chiusura del Concilio Vaticano II (Dignitatis umanae)”. Peraltro la professoressa sostiene, nel saggio, che la Chiesa romana si presenta oggi, al contempo, “di parte” e come riserva etica.

 

     31) Ricordo, da questa angolazione, la figura di G. Dossetti, le cui riflessioni sui limiti della repubblica parlamentare, sul bicameralismo puro, sulla necessita’ di una forte autonomia locale, come della riforma e dello snellimento della pubblica amministrazione, anticiparono molto temi tutt’oggi al centro del dibattito politico-istituzionale. Su Dossetti, rimando agli Studi nel decennale della morte, a cura di A. Melloni, Bologna, 2007.

 

     32) P. Scoppola, La democrazia dei cristiani, Laterza 2005.

 

     33) Ibidem.

 

     34) G. Enrico Rusconi, Quanto costa essere laici, Il Mulino, 6/09.

 

     35) G. Napolitano, Una e Indivisibile, Rizzoli, 2011.

   

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