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Riforme e trasparenza per ridare ai giovani il futuro

di Sergio Talamo

Riforme e trasparenza per ridare ai giovani il futuro Ma l'Italia sembra inchiodata al passato. E nessuno aiuta i bamboccioni...

I bamboccioni sono tali per colpa dei padri, dice il ministro Brunetta. La tesi non è nuova. Sono almeno 20 anni che economisti coraggiosi (fra questi Cazzola, Pennisi, Da Empoli) affrontano di petto questo problema. Il conflitto generazionale è una realtà che pesa non solo sullo sviluppo del paese ma anche sulla sua coesione sociale. Non si può pensare che le generazioni più giovani possano reagire con serenità a un accesso al lavoro sprangato da una crisi a sua volta provocata dagli sprechi dei decenni precedenti; né che possano adattarsi senza traumi o rancori a condizioni di lavoro (stabilità dei contratti, benefit, trattamenti pensionistici) enormemente inferiori a quelle dei loro padri o anche dei loro fratelli maggiori.

 

La politica di concessioni smodate ai lavoratori degli anni ’60, ’70 e ’80 ha strozzato i canali di inserimento lavorativo. In pratica, è stato come se una famiglia spendesse i soldi che non aveva: i soldi dei figli, dei nipoti e dei pronipoti. Una progenie che dai suoi avi ha ereditato i debiti e le connesse umiliazioni.

 

Nell’affrontare l’iniquità generazionale, spesso non si ha neppure il coraggio di puntare l’indice nella direzione giusta. Si ha un certo pudore a dire che il principale nemico del mercato aperto ed inclusivo è la “blindatura” dei contratti, con il corollario dell’inamovibilità, degli automatismi e di tutti gli altri “diritti acquisiti”. Se una persona assunta mettiamo nel 1985 non è licenziabile neppure se non produce nulla, e nello stesso tempo gode di scatti di anzianità, aumenti garantiti dai contratti collettivi, indennità che diventano parti dello stipendio e infine anche pensione con il sistema retributivo, è evidente che nessuna azienda privata e nessun ente pubblico sarà in condizione di assorbire nuovo personale. Se lo farà, avverrà con contratti molto più flessibili e privi di garanzie. I giovani li accetteranno come fossero la terra promessa, anche quando le disparità di trattamento con i colleghi più anziani saranno evidenti. Dopo un certo periodo diventeranno “precari”, la nuova tipologia sociale che indica coloro che aspirano a “sistemarsi”. Per far cosa? Nella maggior parte dei casi, per fare come coloro che sistemati lo sono già: utilizzare tutte le garanzie a disposizione (malattie comprese) per ridurre al minimo la propria prestazione lavorativa.
Che si fa, allora? Per alcuni la strada giusta è rendere tutti i lavoratori flessibili, così come lo sono i dirigenti d’azienda o i professori dei “college” anglosassoni. Tutti precari, nessun precario.
Si è affacciata tempo fa la proposta contraria: tutti i contratti dovrebbero essere a tempo indeterminato, ma la licenziabilità diventerebbe molto più facile (flessibilità in uscita, con il rafforzamento del sostegno ai disoccupati), così come la facoltà di distribuire premi o sanzioni a seconda delle proprie capacità produttive. La parte variabile dello stipendio, insomma, crescerebbe di molto e quella fissa si abbasserebbe. Inutile dire quale accoglienza sia stata riservata in sede sindacale a questo modello di mercato del lavoro.

 

Oggi siamo al punto che il dualismo dei contratti per i giovani (instabile o a tempo indeterminato) può costare ai giovani fino al 30% della loro pensione futura. È un calcolo fatto dall’economista Tito Boeri, che afferma: «Il continuo rinvio delle riforme del percorso di ingresso nel mercato del lavoro, ad esempio con l’introduzione di un contratto unico a tutele progressive, sta tagliando in modo consistente le pensioni dei giovani». Boeri  inoltre cita la "lettera a Johanna", una lettera-tipo presa fra quelle che il governo svedese invia ai cittadini per informarli sugli sviluppi delle loro pensioni. Un modo per rendere chiaro da subito qual è il destino di un lavoratore, anche per suggerirgli eventuali investimenti o pensioni integrative. Se si facesse in Italia, si renderebbe evidente l’iniquità di aver diviso la popolazione tra coloro che godono di un sistema ultrafavorevole (il retributivo, cioè la pensione basata sulla retribuzione più alta) e coloro che devono accontentarsi del sistema più penalizzante (il contributivo, cioè la pensione basata sui contributi versati); per non dire di coloro che sono a metà fra i due sistemi. Inoltre si vedrebbero le disparità fra le diverse fasce di precariato.

 

Insomma, una serie di operazioni di trasparenza che, se darebbero il senso di una forte ingiustizia generazionale, aiuterebbero perlomeno ad organizzarsi il futuro. Ma l’Italia sembra davvero inchiodata a una politica per cui il futuro non esiste. Il futuro, del resto, riguarda chi oggi non conta, o non vota, o addirittura ancora deve venire al mondo.
A proposito di agenda di governo per i prossimi tre anni: ci sono in giro un bel po' di bamboccioni che vorrebbero una mano per non esserlo più.

17 aprile 2010

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