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Vizi e virtù della cosiddetta prima Repubblica nell'ultimo libro di Giampaolo Pansa

Ritratto di un'Italia (politica) che non c'è più

di Andrea Possieri

"Oggi si dice, con più di una ragione, che molti politici italiani siano soltanto dei dilettanti, senza esperienza alle spalle. Arrivano alla Camera o al Senato perché il loro capopartito li ha scelti per mille motivi, sempre diversi. Scelti e nominati, dal momento che con le liste bloccate, e senza il voto di preferenza, ottenere un buon posto nell'elenco dei candidati garantisce un seggio sicuro in Parlamento. Nella prima Repubblica non andava così. I politici, e soprattutto i leader, venivano da una scuola lunga e dura".

È sufficiente questa lunga citazione tratta dall'ultimo libro di Giampaolo Pansa, I cari estinti (Milano, Rizzoli, 2010, pagine 520, euro 22), per dare la cifra di un volume che non è certamente un processo alla cosiddetta prima Repubblica, né una requisitoria nostalgica contro quella che si suppone essere la Seconda, ma un affresco dei primi cinquant'anni del sistema politico italiano tratteggiato attraverso la descrizione di alcuni suoi protagonisti: il "pio" Rumor, il "tiranno" Fanfani, il "Giulio Cesare" De Mita, il "baffo di ferro" Occhetto e via seguitando in un interminabile sequela di nomignoli che assomigliano più a degli epitaffi che a dei soprannomi.

Il quadro che ne scaturisce è il ritratto di un'Italia politica che inesorabilmente non c'è più. Non solo nei suoi protagonisti, ma soprattutto nelle sue culture politiche. Anzi, sul modo di pensare, vivere e concepire la politica. E di conseguenza sui mezzi, ovvero i partiti, deputati a rappresentarla.

Il quadro dipinto da Pansa, ovviamente, ritrae solo una porzione della storia d'Italia. Si potrebbe dire quella rimasta impressa sul bloc notes del cronista politico. È perciò, per forza di cose, un racconto parziale dal quale è possibile stilare un elenco degli uomini politici che non sono citati nel volume. Partendo, naturalmente, da Alcide De Gasperi, senza il quale la storia d'Italia appare inevitabilmente monca. Ma sarebbe un elenco inutile perché questa narrazione è anche un racconto autobiografico e che, come tale, non ha la pretesa di essere esaustiva ma soltanto di possedere lo sguardo attento, irriverente e puntuto del cronista politico a cui non sfuggono i vizi e le virtù della tanto vituperata prima Repubblica.

Un sistema politico a cui il giornalista monferrino non guarda certamente con gli occhi nostalgici di chi rimpiange il passato. Il giudizio su alcuni limiti della "Repubblica dei partiti", per esempio sulle "follie elettorali" del 1987, è senza appelli: "Ingenuità grottesche. Vuotaggini infantili. Trovate demenziali. Slogan da manicomio. Scemenze comico-orrende. Bugie spacciate senza vergogna. Manifesti da fucilazioni alla schiena. Vomitevoli spot televisivi. Interviste suicide".

Tuttavia, la prima Repubblica, con i suoi limiti strutturali, con le sue storture palesi e con le sue degenerazioni perverse annoverava anche alcune virtù. Una su tutte, la formazione della classe politica. Una classe politica non improvvisata, forgiata nel fuoco della "politica come professione", nello scontro culturale tra visioni del mondo contrapposte e proposte economiche alternative ma anche sui banchi del liceo e nelle fabbriche, sulle aule universitarie e nelle sezioni di partito del più sperduto borgo del Paese. Una classe politica che, parafrasando le parole di Pansa, aveva fatto la gavetta, era cresciuta nelle viscere del Paese e che, in definitiva, se confrontata con quella attuale, aveva un altro bagaglio culturale alle spalle. È questo il punctum dolens del volume di Pansa che potrebbe urtare, per usare un eufemismo, la suscettibilità dei maggiorenti politici di turno.

A proposito di Nenni Pansa scrive: "Che stoffa, i politici di una volta. E che memoria. Quelli di oggi non ricordano neanche il nome di un amico che ha cenato con loro due sere prima, pagando pure il conto".
Oppure su Amintore Fanfani: "Era un tipo umano di cui si è persa la razza nella politica d'oggi, quella della Seconda Repubblica".
E infine su Spadolini: "Voglio dirlo: un uomo da rimpiangere. E anche un gigante, se confrontato ai tanti omuncoli di questo crepuscolo della Seconda Repubblica. Ai quali ben s'adatta il vecchio adagio cinese che recita: quando il sole è al tramonto, anche l'ombra del nano si allunga".

Dunque una Repubblica da rimpiangere? Nient'affatto. Piuttosto un sistema politico su cui riflettere. Su cui vale la pena soffermarsi senza versare lacrime di coccodrillo o, al contrario, lanciarsi in afflati liberatori contro la cappa opprimente del proporzionalismo lottizzatore.