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Sulla destra e oltre…

Intervista di Alessandro Bedini al politologo Marco Tarchi.

Marco Tarchi, politologo dell’Università di Firenze, è sempre molto attento ai fenomeni che si verificano all’interno delle compagini politiche presenti in Italia. Studioso del fenomeno populista e dell’evoluzione/involuzione della destra, ha dedicato all’argomento un ponderoso volume dal titolo: L’Italia populista. Dal qualunquismo ai girotondi, sempre per i tipi del Mulino. Gli effetti dell’attuale legge elettorale costringono attualmente soggetti politici assai diversi tra loro a coesistere e ciò contribuisce a provocare veri e propri conflitti interni che pongono in una condizione di crisi i maggiori raggruppamenti politici, specie in periodo elettorale. Con il professor Tarchi, autore di numerose pubblicazioni su questo argomento, cerchiamo di analizzare il complesso panorama politico che ci troviamo di fronte.

1) Professor Tarchi, qualcuno dice che il Popolo delle Libertà in questo momento sta peggio del Partito Democratico. E’ vero secondo Lei?

Quel che è certo è che entrambi soffrono, in forme diverse, dello stesso male: la difficoltà di coniugare positivamente, se non fondere, anime diverse. Sia il PdL che il PD sono alle prese non tanto con la questione della convivenza delle culture politiche di provenienza dei loro esponenti – perché una certa mescolanza di ex-AN e ex-FI o ex-DS e ex-DL c’è stata – quanto piuttosto con la divergenza di linee di condotta e di obiettivi politici di alcune componenti “miste”, rivelata dai contrasti tra berlusconiani e finiani (vecchi e nuovi, in entrambi i casi) o tra bersaniani, franceschiniani e mariniani (idem). E’ una matassa difficile da dipanare, che si cerca di tenere insieme solo con l’imposizione di leggi elettorali che obbligano a stare uniti per non subire gli effetti penalizzanti del meccanismo del bipolarismo forzato.

2) Lei si occupa da anni del fenomeno del populismo; ritiene che l’attuale crisi del PdL abbia qualcosa a che fare con tale elemento?

Tutt’altro. Le tematiche populiste sono le uniche che riescono ad assicurare al PdL – e alla Lega – fasce di consenso elettorale che altrimenti prenderebbero la via dell’astensione o del voto di pura protesta. Quello che non funziona è la declinazione programmatica “in positivo”, che o non si vede o appare sovrastata dalla preoccupazione per tematiche di dubbia presa popolare, come la guerra con la magistratura e il varo di provvedimenti ad personam per riuscire a non perderla.

3) Corruzione e politica. Quali sono a suo avviso le cause profonde di questa autentica decomposizione della politica italiana? E, se esiste, quale potrebbe essere il rimedio?

Si è fatto notare da più parti che le radici della disponibilità alla corruzione, al favoritismo, allo scambio clientelare di favori affondano nel l’humus della società civile (o incivile?) italiana. Sono d’accordo. Aggiungo però che la tanto vantata eclissi o estinzione delle ideologie ha sottratto una leva psicologica ed etica fondamentale alla disponibilità ad impegnarsi in politica, lasciando il passo a un carrierismo che non può che alimentarsi di una tendenza a far di tutto pur di guadagnare punti sui concorrenti e di far fruttare – anche economicamente – la posizione che si è riusciti ad occupare.

4) Il Presidente della Camera Gianfranco Fini si è eretto a supremo custode della moralità nella politica. Lei vede una qualche assonanza con le posizioni che l’allora Movimento Sociale Italiano, guidato dallo stesso Fini, assunse durante l’epoca di tangentopoli?

Poche. Allora il Msi si proclamava partito dalle mani pulite – condizione determinata dalla quasi totale impossibilità di sporcarsele perché le vie del governo e sottogoverno nazionale e locale gli erano precluse dall’indisponibilità degli altri partiti ad accettarlo come alleato – in funzione di critica radicale al sistema “partitocratico”. Oggi la critica al dilagare della corruzione è condotta con assai maggiore cautela (perché gli esponenti di AN sono largamente inclusi nel sistema di potere e il rischio che ve ne siano di compromessi con pratiche “non ortodosse” è sempre in agguato, come il caso Di Girolamo indica) ed è comunque interna a quel sistema, che è stato accettato e di cui si cerca di godere i vantaggi. È piuttosto uno strumento di competizione nei confronti degli ex Forza Italia e dello stesso Berlusconi.

5) Nel suo ultimo libro che uscirà nelle prossime settimane per Vallecchi, La rivoluzione impossibile. Dai campi Hobbit alla Nuova Destra, quale tipo di analisi della storia della destra italiana proporrà?

Ciò che cerco di documentare nel libro è il percorso reale che le giovani generazioni missine hanno affrontato negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta, quando si manifestarono nel mondo neofascista fermenti innovativi che fecero parlare di una vera e propria rivoluzione culturale in quell’ambiente. Rivoluzione che, come il titolo dell’opera fa capire, non aveva alcuna seria possibilità di attecchire, ma che venne perseguita con una certa caparbietà. Dall’analisi che lì svolgo mi pare che emergano due dati di fatto. Da un lato, si dimostra che, contrariamente a quanto di recente si è sostenuto in volumi che hanno avuto un’ampia circolazione, nella stagione degli “anni di piombo” la più drastica rottura con certi tic e tabù del neofascismo non la operarono i cosiddetti spontaneisti armati o i gruppi extraparlamentari violenti, ma quel paio di migliaia di militanti che sentivano più forte il richiamo della cultura, a cui subordinavano l’azione politica. Dall’altro, si documenta, in dissonanza con un’altra vulgata oggi diffusa, che quei fermenti si coagularono in una Nuova Destra che poco o nulla aveva a che vedere con la “destra nuova” di Fini. Quel progetto di fuoriuscita dal regno delle nostalgie ipotizzava ben altri sbocchi, che con le logiche delle destre attuali non avevano niente da spartire.

Lucca, 6 aprile 2010
Alessandro Bedini

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