logo Fucinaidee

LA CITTADINANZA E GLI IMMIGRATI

(Tra rigore e solidarieta’)

 

Di Andrea Talia

 

Premessa

 

     Le due grandi ideologie che hanno diviso il mondo per oltre mezzo secolo sono, una, pressoche’ esaurita, l’altra, in fase di rivisitazione.

La prima, di stampo di socialismo radicale, ha terminato il suo iter. E, con esso, i suoi corollari principali. Classi, dogmi, ideologie, welfare state universale.

La seconda, di matrice liberal-liberista, e’ andata in tilt per l’attuale crisi. Si ripensa, cosi’, e tra l’altro, in maniera critica, al mercatismo e alla “mano invisibile del mercato”. Nella sua logica selettiva e concorrenziale.

Stentano, peraltro, a farsi strada nuove regole del gioco, nuove regole di comportamento, nuovi atteggiamenti collettivi e individuali.

Le cose vanno ancora peggio sul versante politico-sociale. La democrazia, in senso sostanziale, e’ insidiata da fenomeni degenerativi. Penso al “plebiscitarismo”, alla “partitocrazia”, al “lobbysmo”.        

Avremmo invece bisogno di piu’ “partecipazione”, di piu’ “rappresentanza”, di piu’ “consenso”, di piu’ “opinione pubblica”.

In questa temperie, la cittadinanza sia come riscoperta di una inedita visione del profilo del “residente” in termini di garanzie istituzionali/procedurali dello Stato di diritto che di quello dell’”immigrato”, assume una connotazione strategica.

Da realizzare attorno a un progetto nuovo di unita’ nazionale, oggi (ancora una volta) mal sicura e minacciata. Sostanzialmente: mai veramente attuata.

 

Le dimensioni della cittadinanza.

 

A)    IL profilo teorico.

 

     La parola cittadinanza – a livello semantico – connota lo status di civis. Articolato a seconda delle leggi dello stato di appartenenza.

Dalla coincidenza della communitas con la civitas, si dipartono una serie di diritti (1) (“posso”) e di doveri (“debbo”), strettamente interrelati.

La cittadinanza (2), in buona sostanza, vista nella sua dimensione positiva, diventa, con l’andare del tempo, “il diritto di avere diritti” (Annah Arendt), luogo privilegiato della liberta’ e dell’uguaglianza.

Nella sua dimensione negativa, la struttura dei doveri, fornisce, alla cittadinanza repubblicana, la base per una forma partecipata. Diritti soggettivi attraverso l’esercizio dei doveri civici.

Piu’ specificatamente, la categoria della cittadinanza, appare centrale, almeno da tre punti di vista (3):

-         permette di guardare al sistema ex parte populi. Titolarieta’ dei diritti (entitlement) e loro godimento effettivo (endowment) da parte dei cittadini;

-          media l’universalismo dei contenuti e delle garanzie con il particolarismo dell’appartenenza a gruppi diversi (a varie latitudini) da quello nazionale;

-          attenua, quindi, la tensione fra la tutela dei diritti soggettivi garantiti dallo Stato ai propri cittadini e le aspettative delle minoranze etniche, implementate dai processi di universalizzazione e globalizzazione.

     La nozione di cittadinanza, ove se ne voglia ricostruire il profilo storico, appare connotata da una valenza giuridica (cittadino/straniero), da una politica e da una sociologica.

Una sorta di prisma, scomponibile in tre lati, avente carattere espansivo, elaborata da un sociologo britannico: Thomas H. Marschall (4).

Marschall distingue tre fasi, storicamente datate, della cittadinanza:

-         la civile, antesignana delle altre, erogatrice della gamma dei diritti di liberta’, propria delle moderne costituzioni;

-          la politica (XIX secolo) in chiave di riscatto delle classi subalterne (esercizio del potere politico; suffragio generale);

-          la sociale (XX secolo). Sistema scolastico e servizi sociali (salute, casa, pensioni, assicurazioni, ecc.), come architravi del sistema di welfare, sia generalista che localistico.

Merce’ la cittadinanza sociale, secondo Marschall, le disuguaglianze,  non sono piu’ di status, ma di reddito.

     Andando avanti nel catalogo dei diritti (vieppiu’ aumentati e meglio calibrati alle nuove esigenze), ricordiamo, che il primo dicembre 2009 e’ entrata, dopo una lunghissima gestazione, la Carta europea dei diritti.

Nella stessa, sono evidenziati, tra l’altro, i diritti biopolitici. Quali, la tutela dei dati personali, la tutela del vincolo familiare, il rispetto delle diversita’ in materia sessuale. Non sono mancate polemiche.

Tra le altre, essendo stata eliminata, nella Carta, la superiorita’ del matrimonio rispetto alla convivenza, l’arcivescovo di Bologna stigmatizza (a sommesso parere di chi scrive, ingiustamente) il disposto della legge regionale (art.42) che ha sancito, per l’utilizzo dei servizi sociali, in conseguenza.

In un’ottica quindi “allargata” (5).

Anche sotto il profilo della religione e del suo esercizio, la Carta recepisce alcune “novita’”. Vuoi in materia di incardinamento, nella liberta’ di pensiero, della liberta’ di religione (in tutte le sue manifestazioni), vuoi (e contrario), pur nelle diversita’ culturali e linguistiche, del rispetto delle diversita’ religiose.

Non a caso, la Corte di Strasburgo, nella sentenza contro l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, ha fatto riferimento alla Carta.

Conclusivamente, evidenziamo, nella filosofia della Carta, un riconoscimento laico, secolarizzato della religione. Contro ogni chiusura, vecchia e nuova.

Tra quest’ultima citiamo la votazione della Svizzera contro i minareti e la sortita della Lega (Castelli) che auspica la croce sulle bandiere. Mi chiedo: ma le crociate (Deus hoc vult) non sono terminate da 800 anni?

 

Il profilo pratico.

 

     La cittadinanza in senso stretto (6) e’ oggi sfidata, frantumata, messa in crisi da vasti movimenti migratori. Gli stessi riguardano popoli che, dall’Est e dal Sud del mondo, cercano una via d’uscita alla fame, alla persecuzione politica, al tempo senza progetto e senza futuro.

Si tratta di una antinomia fra il particolarismo delle cittadinanze nazionali e i processi di globalizzazione in atto. Un mix di centralismo giurisdizionale, pacifismo giuridico e costituzione globale. Fenomeni imponenti che coinvolgono un numero crescente di soggetti economicamente e politicamente molto deboli. Gli stessi, da un lato, chiedono di diventare cittadini pleno iure dei paesi dove vivono e lavorano; dall’altro, motivano gli Stati interessati a chiudersi, ad adottare politiche di contenimento in termini sia di rigetto che di espulsione violenta.

Si tratta di una sfida radicale, dall’evoluzione necessariamente incompleta (7) e dagli approdi non decifrabili. (La percezione del “diverso” non e’ definitiva, immutabile, eterna). Che e’ doveroso raccogliere e risolvere (rimandiamo alla parte finale dell’articolo) in un disegno che non dia per scontato il superamento dello Stato nazionale. Non sottovaluti, peraltro, la forza coesiva delle radici etniche e nazionali dei gruppi sociali.

Gli interessi in campo portano, quasi fatalmente, pur nell’ambito di una sostanziale convivenza, da parte dello Stato, a regressioni di tipo illiberale, punte di razzismo e fenomeni di apartheeid.

Penso, tra le altre, al “decreto sicurezza”, all’invito della “denuncia del clandestino” ricoverato nei presidi pubblici, ai rigurgiti neonazisti e antisemiti.

Abbiamo, peraltro, parlato non a caso di fenomeni (in certo qual modo) isolati, di punte di razzismo. Chiariamo. Sussiste una notevole differenza contenutistica tra il razzismo e le reazioni emotive di questo genere.

Il primo e’ un male cronico, le seconde sono soltanto le malattie infantili della societa’ multietnica.

Per quanto ci riguarda, pur non sottovalutando la portata di talune punte estreme (episodicamente riaffioranti) di intolleranza, non crediamo che l’Italia possa dirsi, tout court, un Paese razzista (8). Storia, influenza della Chiesa cattolica, sociologia e antropologia del cittadino italiano, ne fanno fede.

Sul primo versante, ricordo l’afflato universale della Roma imperiale: l’editto di Caracalla o Constitutio Antoniana (212 d.C.) accordava la cittadinanza a tutti gli uomini liberi che vivevano nell’impero (9). Le leggi raziali (1938), poi,furono emanate, da ultimo e ob torto collo. Pur nella vigenza delle stesse, molti italiani aiutarono gli ebrei a scampare dai campi di sterminio.

Sul secondo, il magistero della Chiesa cattolica (penso, in particolare, all’enciclica di Benedetto XVI “Caritas in veritate”, e’ stato sempre finalizzato a promuovere un umanesimo integrale e solidale, capace di animare un ordine sociale, economico e politico, fondato sulla dignita’ e sulla liberta’ di ogni persona umana. Da attuare nella pace, nella giustizia, nella solidarieta’.

Sul terzo, passiamo, anche se non sempre (rimando ai libri di Del Boca sulle guerre d’Africa) per “Italiani, brava gente”, non avendo alle spalle una diffusa vocazione coloniale. Inoltre (sino a pochi anni fa) siamo stati, anche noi, un Paese di emigranti (“Ricordati che eri straniero, cosi’ B. Spinelli, in un suo saggio del 2005). Un solo dato: tra il 1901 e il 1923, emigrarono in America: 4.711.000 italiani.

 

     Le tensioni sopra descritte hanno determinato un antagonismo fra cittadinanza e “diritti cosmopolitici”, probabilmente ancora piu’ drammatico in un prossimo futuro. Da parte di masse sterminate di soggetti appartenenti ad aree continentali senza sviluppo e con un elevato tasso demografico.

Tramontato l’ideale universale propugnato dall’Illuminismo (10), superato al contempo il cosiddetto “modello di Westfalia” (11) gli stati europei hanno posto, al centro della modernita’, un’idea individualistica, razionalistica e secolarizzata di emancipazione.

Peraltro, sul terreno positivo, l’idea di uno sviluppo lineare e incrementale dei diritti, mostra resistenze, incongruenze, difficolta’. Si’ da svuotare praticamente il nocciolo della cittadinanza universale.

E pertanto, da una parte gli Stati europei continuano a mantenere, sul punto, un’ampia discrezionalita’, ora estensiva, ora restrittiva; dall’altra, il concetto di cittadinanza viene utilizzato a fini politici, anch’essi diversificati, a seconda della cultura che l’accompagna, nei confronti dei nuovi “cittadini”.

 

Il caso italiano.

 

      La legislazione italiana sulla cittadinanza agli immigrati risente ancora di una disciplina, ormai anacronistica (12), che vede il fenomeno immigratorio quale problema essenzialmente di ordine pubblico.

Prevale quindi una strategia di integrazione (13) attraverso regolarizzazioni di massa e una congerie di norme, a contenuto restrittivo, in materia di ingresso, di soggiorno e di espulsione.

La cittadinanza si acquista tramite il requisito di una residenza decennale (la legge del 1912 ne richiedeva solo sei). Per le seconde generazioni:

-         dopo il raggiungimento del diciottesimo anno;

-          con genitori regolarmente residenti in Italia al momento della nascita;

-          Con diciotto anni di residenza ininterrotta (i figli degli emigrati italiani: solo dopo 2/3 anni).

Prevalendo cosi’ lo ius sanguinis, le naturalizzazioni restano molto rare, sebbene in aumento. Un solo dato: nel 2005 abbiamo fatto spazio a 19.226 nuovi cittadini; nello stesso anno, la Francia, ne ha accolto 154.827.

A questa strategia restrittiva in punto di diritto, se ne accompagna un’altra, dello stesso tenore, in punto di fatto. In questo modo vengono ad essere vulnerate le garanzie formali della cittadinanza, come forma di protezione giuridica dei diritti umani. Leso altresi’ il principio di uguaglianza e di trattamento.

Ricordo che “Tutti” i cittadini dovrebbero godere di eguali diritti (art.3 Cost.) anche in sede giudiziaria (art.22 Cost.), di tutela del lavoro (art.35 Cost.) e di una retribuzione adeguata (art.36 Cost.).

Assistiamo, invece, e in aggiunta, a una sorta di razzismo normativo.

Si pensi alle lungaggini per il permesso di soggiorno (30 giorni a un italiano per rinnovare il passaporto; 291, per lo straniero, per rinnovare il permesso di soggiorno); all’impossibilita’ di votare alle elezioni (accordata, da una riforma costituzionale del 2000, ai nostri connazionali residenti all’estero); al termine di solo 6 mesi (ex lege Bossi-Fini) per ritrovare, in caso di perdita, un lavoro. Eppure il lavoro rappresenta, per l’immigrato, non solo l’attivita’ economica da cui trarre il reddito, ma l’atto costitutivo del suo diritto a risiedere nel territorio.

 

Tentativi di riforma.

 

     Vari i tentativi, intesi a modificare l’attuale normativa. Restrittiva per molti aspetti (si pensi alla naturalizzazione dei bambini nati in Italia), generosa per altri, originante veri e propri abusi (si pensi alla cittadinanza concessa per matrimonio).

Il percorso riformatore, e’ passato, tra l’altro, attraverso il Disegno delega (15 marzo 2007, Amato-Ferrera), riproposto, a nome del Pd, nel Disegno di legge Bressa.

Punti maggiormente innovativi:

-         riduzione, ai fini della concessione della cittadinanza, da 10 a 5 anni. Proposta di legge bipartisan firmata da Sarubbi e Granata. Caldeggiata dal Presidente della Camera Fini.

Si privilegia, cosi’, lo ius soli: un corretto percorso di vita lavorativa e di inserimento come accesso alla cittadinanza;

-         principio della residenza di chi nasce in Italia. Si tratta, in effetti, di concedere la cittadinanza italiana ad oltre 800mila bambini, immigrati di seconda generazione (oltre 500mila nati in Italia). A partire da 10 anni di eta’ “con una valutazione della scuola al termine delle elementari”.

     Cosi’ – ha sostenuto il Vice capogruppo PdL Italo Bocchino – i ragazzi rafforzano la loro identita’, nel momento formativo dell’adolescenza.

Giusto. Peraltro, non si deve lasciare sola la scuola, nello sforzo di integrazione e di veicolo della nostra identita’ culturale. Cioe’ la memoria storica, i beni culturali, il senso civico e religioso ereditato dall’esperienza e tramandato dalla storia.

Non bastano le leggi per tenere insieme una societa’, per farla vivere e prosperare. Occorre anche una cultura e un’educazione (tendenzialmente) comune. Non spaventi la parola educazione: e’ il sale di una democrazia responsabile. Fa capire al ragazzo immigrato il relativismo della propria cultura, della propria fede, delle proprie persuasioni.

Il problema e’ di senso e di misura. Non si puo’ pensare di delegare alla scuola, in toto, i problemi di integrazione dei ragazzi immigrati, dimenticando quelli degli alunni delle famiglie italiane.

In questa logica, accanto alla misura di imporre un tetto del 30% agli immigrati nelle nostre scuole, occorre, ad avviso di chi scrive, pensare anche ad altre coordinate. Orari differenziati, classi-ponte, valutazioni mirate, gruppi divisi per l’insegnamento tecnico della nostra lingua e di altre materie. In sostanza, l’integrazione fatta bene e’ una risorsa educativa eccezionale. Se di “ghetti” si vuole davvero parlare, ci si deve riferire a quelle scuole che gli stranieri non li accettano.

Ma non si puo’ nemmeno pensare il suo contrario. Di lasciare una societa’ allo stato spontaneo, consentendo che gli unici parametri siano il libero arbitrio, il mercato e il codice.

Aggiungiamo, per completezza, che il panorama politico continua ad essere variegato. Ad aperture da parte del Pd (Franceschini) e dell’Udc (Casini), fa da riscontro la linea dura della Lega: “La cittadinanza non fa parte del programma di governo” (14).

    

L’immigrazione clandestina

 

     L’immigrazione “irregolare” (cioe’ senza permesso e senza contratto di soggiorno) costituisce un segmento minoritario rispetto a quello regolare (15). Pur tuttavia in esso si annnidano notevoli tassi di criminalita’ (quello dei regolari risulta simile a quello degli italiani) (16).

Sul piano lavorativo, poi, si ricorre al caporalato e al lavoro nero. Quest’ultimo rappresenta un danno enorme per la collettivita’ e per l’economia. Crea, infatti, una concorrenza sleale tra  imprese; alimenta il razzismo generando la convinzione che gli immigrati rubano il lavoro agli italiani; incentiva gli ingressi irregolari.

La legislazione in materia e’ improntata a strategie di deterrenza, criminalizzazione, rigetto. Nell’ambito di un concetto di sicurezza pervasiva, che trova consenso e voti a favore di quei partiti che la sponsorizzano.

Una premessa doverosa: non tutti gli irregolari sono fuori legge. Piu’ semplicemente, molti sono in attesa di permesso di soggiorno, iniziale o da rinnovare, o di pratiche di regolarizzazione.

“Fare la faccia feroce” in maniera indiscriminata, non giova ne’ in termini sociologici (“societa’ aperta”, quale declinazione ormai irreversibile), ne’ in termini antropologici (“noi” e “loro”; gli “uguali” e i “diversi”; la propria civilta’ e l’altrui barbaria), ne’ in termini economici. Sotto quest’ultimo aspetto, qualche cifra, concernente i soli immigrati regolari. Essi sommano il 10% della nostra forza lavoro (nell’edilizia: 49% a Milano; 50% a Roma); trecentomila famiglie ricorrono ogni giorno all’aiuto di una badante o di una colf che parla un’altra lingua; nel 2008: 6 miliardi di gettito fiscale (17). E cosi’ l’economia richiede immigrati; la societa’ li rifiuta; il Governo sembra essere d’accordo su questa linea (18).

Atteggiamento che a noi sembra francamente stigmatizzabile, di comodo e fariseo. Stranieri a casa loro. Salvo impiegare, pagandoli il meno possibile, quelli che servono per pulire le case, curare gli anziani, badare ai bambini, lavare i piatti nei ristoranti, raccogliere pomodori nei campi.

Il “caso Rosarno” ci sembra emblematico. Una guerra tra poveri: non tra produttori e nuovi braccianti regolari e clandestini (extra-comunitari), intermediati dai “caporali”. Sottopagati (o non pagati), non assicurati, alloggiati in casolari diroccati. In condizioni pazzesche.

E tutto questo non e’ reato? Non e’ reato assoldare con paghe di fame dei poveracci senza contributi? Non e’ una notitia criminis, attivabile ex officio dai magistrati che centinaia, migliaia di persone siano reclutate in quel modo?

Lo Stato? La magistratura? (19) Gli organi preposti alla vigilanza? Assenti o peggio conniventi (20).

Inoltre: possiamo parlare “correttamente” di attivazione del reato di clandestinita’ quando una colf su quattro non ha il permesso di soggiorno, quando il 57% viene pagato in nero? Quando un extra-comunitario, a parita’ di mansioni, guadagna il 36% in meno rispetto a un italiano? Quando solo un extra-comunitario su quattro, dopo aver scontato in carcere la pena inflittagli, riesce ad essere avviato oltre confine (gli altri tre, ritornano nel circuito delinquenziale)?

Restano, comunque, incontrovertibili alcune circostanze sugli irregolari (21):

-         L’80% dei reati degli immigrati sono commessi da irregolari;

-          Tra coloro che oggi si trovano in condizioni di clandestinita’, solo il 30% e’ entrato in modo irregolare, nel nostro territorio. Gli altri si sono trovati clandestini dopo che il loro permesso e’ scaduto; viceversa, molti clandestini, sono diventati regolari grazie alle varie sanatorie che si sono succedute;

-          Il reato di clandestinita’ (introdotto nell’agosto del 2009), benche’ abbia visto gia’ 12.500 denunce, stenta a vedere le prime condanne.

           Due veloci considerazioni finali, in punto di immigrazione clandestina, difficilmente conciliabili:

-         la rivendicazione, da parte dello Stato, del suo diritto sovrano al pieno controllo del territorio e dei suoi confini. Quindi, prerogativa, di stabilire chi puo’ starci legalmente e chi no.

Peraltro, ove la Corte Costituzionale, adita da alcuni magistrati favorevoli alla tesi dell’incostituzionalita’ del reato di clandestinita’, decidesse diversamente, verrebbe ad essere vulnerato il principio di cui sopra. Il trattato di Schengen (autorizza la libera circolazione ai cittadini d’Europa), da parte sua, non intacca il principio della sicurezza/sovranita’ dello Stato nazionale. Il trattato, infatti, come e’ noto, e’ frutto di un accordo (meramente) volontario fra gli stati;

-         la centralita’ dei diritti sociali, che pur in presenza del clandestino, ne dovrebbe priorizzare liberta’ e dignita’. Collocando la particolarita’ nell’orizzonte della totalita’ umana. Ovviamente, purche’ il clandestino non “delinqua”.

Passando al piano pratico, si potrebbe pensare di aumentare da 6 mesi ad un anno, il periodo di validita’ per la ricerca dell’occupazione, in caso di perdita del lavoro. O, in alternativa, a una sanatoria per dare alla generalita’ dei lavoratori le stesse opportunita’ offerte, nel 2009, alle (sole) colf e badanti.

 

L’integrazione degli islamici tra sogno e realta’.

 

     Nell’orizzonte comunitario non si puo’ prescindere dal tema della religione. L’incontro tra religione e cittadinanza e’ acuito dalla debolezza della politica, dello Stato e della cultura civile. Tale deficit, sintetizzabile nello smarrimento della nozione del bene comune, non e’ in grado, cosi’, di veicolare valori condivisi, regole comuni, orientamenti etici.

Cio’ premesso, una questione nella questione e’ data dalle minoranze immigrate di confessione musulmana. L’appartenenza musulmana porta ad alcune specificita’, di cui necessariamente bisogna tener conto. Proprie sia della sfera privata, che pubblica della societa’.

In estrema sintesi prescrizioni alimentari e della vita familiare; organizzazione del sistema educativo e del lavoro; utilizzazioni ad hoc degli spazi pubblici.

Domanda: su queste basi, e’ possibile realizzare un’integrazione delle minoranze islamiche? In particolare, le stesse la desiderano questa integrazione, pur nel rispetto della forma di vita culturale della loro origine? O piuttosto non sono disponibili ad accettare una nuova identita’ prodotta dal valore universale e polisenso della cittadinanza=

Giovanni Sartori, che aveva gia’ caldeggiato il principio di reciprocita’ (22), ritiene non praticabile l’integrazione nel nostro tessuto sociale. Sulla base di riferimenti storici e su testi di autori (come A. Toynbee, autore di una monumentale storia delle civilizzazioni) (23). L’Islam e’ “un invasivo monoteismo teocratico”.

Tito Boeri e’ di diverso avviso. “Non possiamo servirci di pregiudizi ne trovare le risposte nelle (peraltro autorevoli) pagine di libri scritti alcuni decenni fa in merito” (24).

Per quanto ci riguarda, non siamo per tesi preconfezionate e per teoremi. Ma per soluzioni mediate, flessibili, dialogate.

La realta’ e’ sfaccettata: musulmani integrati che vivono quietamente la loro fede in una logica di superamento della dicotomia identitaria, tramite un processo di ibridazione.

Musulmani, invece, interessati piu’ ad occupare spazi territoriali e fare proseliti, nella versione chiusa e oscurantista. Non mostrandosi interessati a qualsivoglia forma di integrazione, ancorche’ a maglie larghe.

Inoltre: siamo davvero certi che la religione, nel mondo islamico, sia stata sempre vissuta con la stessa intensita’ e intransigenza?

Come, nella storia del Cristianesimo, anche in quello dell’Islam, la febbre della fede risulta funzionale alle cangianti condizioni civili, economiche e culturali. E cosi’, accanto ad un periodo di secolarizzazione, (25) abbiamo assistito ad una rinascita del fenomeno religioso, visto come mastice, anche violento, per l’identita’, l’unita’ e la supremazia del mondo musulmano.

Due interrogativi: perche’ questo? Perche tanti musulmani hanno lasciato i loro paesi per venire in europa? Per conquistare o perche’ erano attratti da tutto cio’ che siamo in grado di offrire al loro futuro? Riflettiamoci.

 

Osservazioni conclusive.

 

     Il problema dell’immigrazione – come gia’ rilevato – e’ problema complesso. Non esistono soluzioni preconfezionate e stabili. Siamo quindi costretti a scegliere “non nel chiaro meriggio della certezza, ma nel crepuscolo delle probabilita’” (J. Locke).

Una buona integrazione dovrebbe innestare un processo lento e realistico. Di confronto e non di imposizione forzata, in base all’idea (astratta) di un’armonia sociale, che esiste solo in natura.

Le variabili di cui occorrre tener conto, sono molteplici. Le stesse, combinandosi, producono situazioni alquanto diverse:

-         il numero degli immigrati rispetto a quello dei cittadini del Paese che li accoglie (in Italia, comparativamente, lo stock migratorio non e’ particolarmente rilevante);

-          le lingue parlate dagli uni e dagli altri;

-          l’intensita’ dei sentimenti religiosi;

-          l’inserimento nel sistema scolastico;

-          le regole per l’acquisto della cittadinanza.

Cio’ premesso, il dibattito sembra diversificarsi a seconda delle teorizzazioni della destra, della sinistra, della chiesa.

La prima, sul punto, declina come prioritario il verbo “frenare” (26). Peraltro, piu’ in chiave di ordine pubblico che in ottica xenofoba.

La stessa Lega nord, sorta come rivolta anti-sistema e anti-fiscale (“Roma ladrona”), solo successivamente, assume caratteristiche di forte chiusura ed ostilita’, in ispecie nei confronti del flusso clandestino. Essa quindi diviene, secondo il sociologo Diamanti, “l’imprenditrice politica della paura”.

La destra, tutto sommato, e’ pragmatica e realista. Come tale, difende l’identita’ nazionale sganciata da appartenenze etnico-religiose. Ritiene utile “meno liberta’ in cambio di piu’ sicurezza”. Valuta la coesione sociale come un bene primario per ogni societa’.

 

     La sinistra sembra piu’ propensa al verbo accogliere. Piu’ spazi, piu’ benefici, piu’ diritti, da generalizzare ed applicare anche all’extra-comunitario. La sua cultura, “politicamente corretta”, e’ percorsa dal sogno di un mondo migliore, venata da utopia, attraversata dall’espressione I care (mi prendo cura). Ricordo, peraltro, che la democrazia riconosce i diritti degli individui, non delle “culture”.

 

     La Chiesa, a sua volta, pur sforzandosi di non confondere religione e politica, e’ per un’accoglienza indiscriminata, senza se e senza ma (Humanitas). Diversita’ e alterita’ come valori. Non si pone peraltro problemi “pratici”. Accoglienza verso chi? Alcuni? Tutti? Con quali criteri? Soprattutto, con quali risorse?

La Chiesa – come ha ricordato Benedetto XVI – “non intende rivendicare per se’ alcun privilegio; non vuole imporrre ai non credenti una prospettiva di fede”, ma porsi, insieme a loro, al servizio dell’uomo. Oggi – per la Chiesa – la sfida e’ quella di articolare verita’ e alterita’ nel senso della comunione dell’ascolto e dell’incontro, non dell’esclusione, dell’arroganza, dell’autosufficienza.

     In definitiva: l’immigrato come fratello, l’amore sull’odio, (Deus caritas est); la mano tesa anziche’ il “ferro spinato”.

 

     Per quanto ci riguarda, riteniamo che il problema della cittadinanza agli immigrati vada risolto senza anatemi, ma senza pater nostri. Senza cedere a miti quali quelli che si deve vivere in una societa’ di “uguali”, sacrificando il mondo reale alla pretesa di sognare un mondo migliore.

Ricordava Voltaire che !”l’ipocrisia e’ il prezzo che il vizio paga alla virtu’”.

Per noi: possono evidenziarsi due visioni.

     A)Accoglienza per chi viene in Italia, sulla base della programmazione dei flussi, per lavorare, vivere onestamente, farsi carico e rispettare le sensibilita’, civili, religiose, etiche del Paese che li ospita. Rispetta e sarai rispettato, riconosciti in questa soocieta’ e sarai riconosciuto, pur senza abdicare alla tua confessione, ai tuoi valori, alla tua cultura.

Una comunita’ quindi compatibile, senza prevaricazioni, con le patrie altrui. Si e’ ospiti-ospitanti quando ci si mette sullo stesso piano degli ospiti-ospitati.

Per costoro: dignita’, condizioni lavorative, scuole tendenzialmente pari a quelle degli italiani.

Il criterio piu’ efficace, poi, per la concessione della cittadinanza, ci sembra quello del fattore tempo legato alla permanenza della residenza. Il meno irrazionale, il piu’ efficace, il piu’ garantista (27).

 

B)     Per i clandestini che vengono invece solo per delinquere, per spacciare, per prostituirsi e per stuprare, per affermare la propria religione in forme violente e integraliste, nessuna ospitalita’. Nessuna miscela filantropica con gli interessi di mercato.

Quindi leggi severe, ma giuste e chiare, da applicare senza tentennamenti. E’ doveroso che l’immigrato conosca, prima di mettersi in cammino dal suo Paese di origine, quali siano i suoi doveri e i suoi diritti. Controlli e doveri; diritti e protezione. Nell’ambito di una “capacita’ globale di concepire come uomo anche il non occidentale e di un’etica moderata della solidarieta’” (28).

 

     In conclusione, sorvegliare il futuro, quale sfida progettuale volta a far convivere le diverse civilta’, in un mondo in trasformazione. Ripensando le categorie di Stato-nazione e welfare state, di societa’ multi-culturale e sistema educativo. Nell’ottica di un cantiere mai terminato della costruzione di una societa’ libertaria che limiti le disuguaglianze e le discriminazioni delle strutture sociali sugli individui. Coniugando rigore e solidarieta’.

Sfida che, ove dovesse fallire, chiamerebbe sul banco degli imputati ne’ la destra ne’ la sinistra. Ma il Paese (29).   

 

 

Note.

 

1)      Rimando a N. Bobbio, L’eta’ dei diritti, Einaudi, 1990.

Storicizzando, ricordo la Costituzione degli Stati Uniti (1776); la Dichiarazione dei diritti dell’uomo (1793); il Codice napoleonico (1804); la Dichiarazione universale dei diritti (1948).

 

2)      Per un excursus in chiave storica, sociale e politologica, cfr. D. Zolo, La cittadinanza, Laterza, 1994:

 

3)      A Miceli, E. Miceli, Un cammino verso la cittadinanza sociale, RSS, 2008/3.

 

4)      T. H. Marschall, Cittadinanza e classe sociale (tradotto, nel 1976, in Italia): saggio, ancora oggi, fondamentale per l’analisi dell’idea di cittadinanza.

 

5)      Avvenire, 2 dicembre 2009.

 

6)      Il trattato di Maastricht (1992) supera l’angustia dei confini. La “cittadinanza duale” considera cittadino dell’Unione “chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro”. Peraltro il panorama legislativo, a livello di Unione Europea (27 paesi), e’ ancora come l’abito di Arlecchino.

 

7)      G. Procacci, Le nuove sfide della cittadinanza in un mondo di immigrazione, R. it. Soc. 2000/3.

 

8)      G. Barbujani e P. Cheli, Sono razzista, ma sto cercando di smettere, Laterza, 2009; G. A. Stella, Negri, Froci, Giudei, Rizzoli, 2009: un quadro d’insieme, di ieri e di oggi, di “noi e degli “altri”. La vera ragione del razzismo risiede nel terrore del nostro “declassamento”: cosi’, in termini sociologici, P. A. Taguieff, Il razzismo. Pregiudizi, teorie, comportamenti, 1999.

 

9)      A. Pagden, Mondi in guerra, Laterza, 2008.

 

10)  I. Kant, Per la pace perpetua; il filosofo, peraltro, esclude l’esistenza di un diritto universale di residenza.

 

11)  Secondo questo modello, a godere dei diritti di cittadinanza, sono soltanto i membri della comunita’ nazionale ad esclusione di tutti gli altri.

 

12)  Alludo alla legislazione fascista.

 

13)  F. Pastore, Migrazioni internazionali e ordinamento giuridico, Storia d’Italia, Annali 14, Einaudi editore.

 

14)  Corriere della sera, 23 dicembre 2009.

 

15)  Al 1.1.2009: 3.891.000 stranieri regolari; 418.000 irregolari (30% al sud).

 

16)  Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra: gestiscono 112 miliardi di dollari l’anno. Nel G5 della criminalita’: l’Italia e’ in testa, cfr. Repubblica, 29.1.2010.

 

17)  Il Sole 24 ore, 24.1.2010. Possiamo chiederci (e la Chiesa se l’e’ chiesto): e’ giusto e educativo concedere sussidi di disoccupazione a quelle persone che non siano disponibili a queste attivita’? Fermo rimanendo che lo Stato le dovrebbe compensare in maniera piu’ alta e adeguata.

 

18)  Dichiarazione del Presidente del consiglio a Reggio Calabria: “Una riduzione degli extra-comunitari significa meno forze che vanno ad ingrossare la criminalita’” da Repubblica del 29.1.2010.

 

19)  La Magistratura, da parte sua, (Corte di Cas., sentenza 5856), ribaltando precedenti pronunciati, ha stabilito che un clandestino non puo’ restare in Italia solo perche’ suo figlio frequenta la scuola. Si priorizza, cosi’, la tutela della frontiera sul diritto del minore. La sentenza e’ stata variamente commentata: in senso favorevole, dalla Lega (Calderoli: “entrare in Italia senza i requisiti di legge e’ un reato e non ci si puo’ nascondere dietro i figli”; Corriere della sera, 12.3.2010); negativamente dalla Chiesa (Mogavero: “stiamo rinnegando la nostra tradizione e cultura; ibidem); dalla sinistra (Gard Lerner, “family day: ma non per tutti”, ibidem) e da giornalisti “moderati” (M. Gramellini, “I diritti dell’infanzia allo studio dovrebbero sempre prevalere”, La Stampa, 12.3.2010). Altri ancora, e ci sembra la posizione da condividere, ritengono che la sentenza non faccia testo e che bisogna decidere “caso per caso” (cosi’, Lidia Turco).

 

20)  Solo ex post, il Ministro degli interni interviene stabilendo che “dopo i fatti di Rosarno, 550 ispettori controlleranno 20.000 aziende” (29 gennaio 2010).

 

21)  Cfr. La Stampa, 30.1.2010.

 

22)  G Sartori, Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla societa’ multietnica, Rizzoli Milano, 2000. “Si e’ tolleranti nella stessa misura in cui si e’ tollerati”.

 

23)  Corriere della sera, 20.12.2009. L’attrazione che l’Islam esercita sui nuovi popoli diseredati d’Europa dipende dal fatto che esso rappresenta una patria culturale e un apparato di valori. Offre altresi’ una giustificazione per l’odio e una causa per la quale combattere. Da trasformare, nelle frange estreme, in una lotta apocalittica tra bene e male.

 

24)  Il Riformista, 12.1.2010.

 

25)  “Cio’ non vuol dire che si ammetta che altre interpretazioni della volonta’ divina abbiano lo stesso valore delle proprie. Significa, invece, essere pronti a tollerare la presenza di coloro che si e’ certi siano nel torto”, cfr. Antony Pagden, Mondi in guerra, op. cit..

 

26)  M. Veneziani, con il suo saggio, La cultura della destra, 2002, ci accompagna, oltre i luoghi comuni e le semplificazioni, all’interno di un arcipelago poco esplorato.

 

27)  L’”accordo di immigrazione” fra Stato e immigrati, che dovrebbe essere introdotto con decreto, prevede un permesso di soggiorno a punti, in sede di rilascio della carta di soggiorno. Una serie di requisiti-punti (conoscenza della lingua italiana e della Costituzione; non avere commesso reati; iscrizione al servizio sanitario nazionale; regolare contratto abitativo; rispetto dell’obbligo di istruzione dei minori) da ottenere in 24 mesi, prorogabili di un anno. Se, al termine di questo percorso, non sara’ raggiunto il voto finale (30 punti) ci sara’ l’espulsione. Cfr. Repubblica, 5.2.2010.

 

     

28)  U. Galimberti, I miti del nostro tempo, Feltrinelli, 2009.

 

29)  S. Veca, Etica e verita’, 2010: “bisogna fare del proprio meglio, entro lo spazio e i vincoli che il mondo ci concede, per rendere piu’ abitabile questo mondo che sappiamo essere preso a prestito prima di noi e che sappiamo essere consegnato – come degno di essere abitato – ad altri dopo di noi, nella catena delle generazioni.

 

Lucca, 19 marzo 2010

  

 

Torna all'indice dei documenti
Torna alla prima pagina