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DEMOCRATICO-ANTIDEMOCRATICO: NON E’ PIU’ UNA DICOTOMIA
Riflessioni su democrazia, Costituzione, sport, costume.

Di Luigi Pinelli

Per ciò che non dicono o per come lo dicono, giornali e televisioni offrono spunti di riflessione a getto continuo.
La consistenza del fenomeno, se da un lato rappresenta sicuramente un fatto positivo, dall’altro favorisce purtroppo anche la superficialità, alla quale non sempre è possibile sottrarsi quando le necessità della vita riescono ad avere la meglio anche sui migliori propositi.
La premessa mi induce ad approfittare di una pausa da altri impegni per fare - tra il serio e il faceto - qualche riflessione meno distratta su fatti, situazioni e comportamenti accumulatisi in ordine sparso nella memoria in attesa di qualche risposta.

Partendo dalla attualità, l’avvenimento che ultimamente ha occupato più di altri i mezzi di comunicazione è indubbiamente costituito dalla nascita del “Partito democratico”.
Benché abbia avuto la possibilità di seguire più che in altre analoghe occasioni lo sviluppo della vicenda, la prima delle varie cose che da semplice osservatore non mi è riuscito di cogliere completamente è proprio quella riguardante i motivi della scelta del nome attribuito al nuovo soggetto politico.
Soprattutto per i grandi movimenti di massa, infatti, sia il nome che il simbolo rappresentano storicamente gli strumenti di evocazione e di aggregazione più immediati, attraverso i quali ogni partito può accreditarsi efficacemente agli occhi dell’elettorato semplificando al massimo per tale via l’interpretazione dell’ideologia e la memorizzazione del messaggio che lo contraddistinguono.
Riguardo al nuovo partito, invece, il corredo del solo aggettivo «democratico» francamente non mi sembra che consenta di cogliere quale sia il reale e specifico contenuto caratterizzante e innovativo di una terminologia così vaga.
Alla luce della Costituzione vigente (art. 1. - L’Italia è una Repubblica democratica) il generico aggettivo “democratico”, infatti, dovrebbe essere considerato appannaggio di tutti. La stessa osservazione meriterebbe, pressoché in misura analoga, la eventuale ricostituzione nell’attuale regime di repubblica di un anacronistico “Partito repubblicano” che non fosse quello (esiste ancora?) storicamente risalente a Mazzini.

Su tale premessa, risulta evidentemente difficile capire come l’aggettivo “democratico”, rappresentando il “tutto”, possa essere efficacemente utilizzato nella realtà attuale per identificarne adeguatamente “una parte” di fronte alla generalità degli elettori.
Siccome in un sistema democratico è del tutto naturale che qualunque partito debba essere democratico, l’integrazione del sostantivo “Partito” con la superflua attribuzione di un requisito scontato equivale se non ad una vera e propria tautologia quanto meno ad una ridondanza priva - volendo rafforzare il concetto con un’altra ridondanza - di contenuti ulteriori.
Una scelta del genere, fra l’altro, non è nemmeno del tutto nuova nel panorama politico italiano, perché fu infatti il primo partito monarchico dell'Italia repubblicana ad attribuirsi per primo il nome di "Partito Democratico", anche se dopo il referendum istituzionale avvertì evidentemente l’esigenza di qualificarsi con maggior precisione trasformandosi in "Partito Democratico di Unità Monarchica".
Non foss’altro che per tale precedente, il nome di “partito democratico”, riesumato ora per una formazione che si presume priva di continuità con tale antenato storico, avrebbe dovuto indurre a soluzioni diverse. Volendo rafforzare il concetto con un parallelismo che non vuol essere affatto irrispettoso, basterà osservare che se invece di un partito si trattasse di un qualsiasi prodotto commerciale di largo consumo, la genericità del nome in discussione non consentirebbe di certo di individuarne a colpo sicuro la collocazione tra i vari stands in cui si articolano gli esercizi di vendita.

Alla individuazione della genesi della scelta non aiutano molto, in verità, neppure i possibili riferimenti a formazioni rintracciabili in altri paesi sotto il medesimo titolo. Ai fondatori dell’attuale partito non farebbe probabilmente piacere, se non se ne sono completamente fraintese le intenzioni, che la nuova creatura fosse accostata - a motivo del nome - ai tanti partiti autoproclamatisi “democratici” anni fa nelle varie repubbliche dell’est europeo, ai quali la forza del nome non è servita ad evitare loro la fine che hanno avuto nel momento in cui lo slogan “se i fatti ci danno torto, peggio per i fatti” ha dovuto fare i conti con una logica democratica evidentemente diversa.

Per i sentimenti di ostilità riservati abitualmente alla realtà americana da molti dei fondatori del nuovo soggetto politico, sembra ugualmente improponibile anche un qualsiasi raffronto con l’omonimo “Partito democratico” degli Stati Uniti, vale a dire con una formazione sostanzialmente di natura elettorale, praticamente attiva solo nei sei mesi della campagna presidenziale, con un incerto profilo coincidente di volta in volta con quello del suo candidato alla Casa bianca e, in caso di vittoria, privo di qualsiasi capacità di condizionamento delle ampie prerogative di esclusiva competenza del Presidente eletto. Lo stesso nome, risalente a circa due secoli fa, alla pari di quello del concorrente “Partito repubblicano” non ha in America storicamente niente in comune con i soggetti omonimi rintracciabili nell’ultimo secolo in contesti completamente diversi.
In mancanza di altri adeguati termini di paragone che aiutino a cogliere ictu oculi il significato recondito della generica autoinvestitura di “democratico” attribuitasi dal nuovo partito italiano, non resta dunque che affidarsi a qualche ipotesi, a partire dalla possibile risposta alla fondamentale domanda che a questo punto sorge spontanea: "Partito Democratico”, che evoca molto ma sostanzialmente dice poco, vuol forse dire, semplicemente, che chi non aderisce non è democratico?
Probabilmente l’intendimento dei fondatori non era questo, in quanto incompatibile con la Costituzione vigente. E comunque, pur dovendosi diffidare a priori e fino a prova contraria di qualunque soggetto che si arroghi il termine “democratico” senza altre specificazioni, non sarebbe bello né giusto fare il processo alle intenzioni, anche se nella scelta del nome, e proprio di quel nome, è difficile non avvertire il fumus di una sottile e ingiustificata forma di presunzione elitaria che non permette di dissipare completamente il sospetto.

Del tutto senza pregio - sempre in base alla Costituzione - sembra poi l’affermazione del segretario del maggior partito confluito nella nuova formazione che “oggi” l’aggettivo “democratico” sarebbe “di sinistra”, trattandosi solo di una convinzione tipicamente “di sinistra” del tutto gratuita per chi militi altrove o non militi affatto.
La pretesa - invece - di guardare il resto dell’umanità dall’alto in basso, insita in quel tanto di “esclusione” implicito nella intitolazione del nuovo partito, fa piuttosto venire in mente il grande Totò, il quale, nel film “Il monaco di Monza”, fermato dagli sgherri all’ingresso di un castello, prima chiede loro “e voi chi siete?” e alla risposta “siamo i bravi!” replica senza incertezze “perché, noi siamo i fessi?”.

Volendo tirare in qualche modo le somme, dunque, la conclusione più accettabile al momento è probabilmente quella insita nella ulteriore seguente domanda: e se invece l’impegnativo aggettivo prescelto per la denominazione del nuovo partito legittimasse il dubbio che esso costituisca semplicemente una “excusatio non petita, accusatio manifesta”, più o meno volontaria, per qualche passata militanza da far dimenticare?
In fondo, siccome le denominazioni contano molto, in mancanza di risposte certe “è men male l'agitarsi nel dubbio, che il riposar nell'errore”, come sosteneva il Manzoni.

In epoca più recente, invece, mentre mia nonna ripeteva crudamente che “chi si loda s’imbroda”, mio nonno sosteneva addirittura (nessuno si offenda, perché la citazione vale solo per il tipo di ragionamento che sottintende) che se uno ripete troppo spesso “io sono una persona onesta” è bene mettersi prudentemente una mano sul portafoglio. E quel mio nonno, si badi bene, pur essendo un “illetterato” che, tornando con due amici fraterni (un “bacchettone”, un “comunistone” e lui “saragattiano”) da un comizio che lo aveva particolarmente soddisfatto, una volta ebbe a dire: “Che grande oratore! Che bel discorso! Certe parole così belle che non s’è capito niente!”, era tutt’altro che un pauroso, se, per insegnarmi che l’uomo onesto non deve avere paura di nessuno, era solito dirmi: “ricordati, nipote, che un uomo in bocca a un altr’uomo non s’è mai visto”.

Tornando a bomba, comunque, quello che fin da ora pare indubbio è che la scelta dell’ultimo nato tra i partiti italiani non può evidentemente pretendere di limitare in alcun modo la prerogativa di qualsiasi altro cittadino di fregiarsi dell’aggettivo “democratico” salvo revoca della Costituzione attualmente vigente.

Se questa è dunque la sola risposta sicura da darsi al quesito da cui si è partiti, qualunque cittadino, “democratico” nella accezione costituzionale, militante o non militante in altri schieramenti e pur tuttavia avverso al neonato “partito democratico”, può dunque giovarsi del diritto di qualificarsi d’ora in poi come “democratico-antidemocratico” senza preoccuparsi del pasticcio linguistico dovuto esclusivamente alla democratica evoluzione di un uso delle parole di dubbia democraticità.

Se la nascita di un nuovo partito ha fornito l’occasione per un piccolo aggiornamento del vocabolario della politica, va anche detto, però, che i partiti non sono i soli ad essersi riempiti la bocca con l’aggettivo “democratico”, in particolare a partire dall’ultimo dopoguerra. Soprattutto in un certo associazionismo si è infatti assistito ad una fioritura di sigle che vanno da quelle di “genitori democratici”, “insegnanti democratici”, “giornalisti democratici”, “ambientalismo democratico”, “movimento democratico siciliano”, “cattolici democratici”, “medici democratici”, “giuristi democratici”, “magistratura democratica”, “psichiatria democratica” e via dicendo, fino alla astrusità di “teodem democratici” suggerita ironicamente dall’ex Presidente Cossiga ad una delle infinite frange del panorama politico più recente.
Tra le sigle citate, alcune meritano almeno un cenno in più.
Nell’unica occasione in cui una trentina di anni fa mi capitò di assistere ad una riunione dei genitori presso la scuola elementare frequentata da mio figlio, ricordo infatti che un partecipante prese la parola a nome dei “genitori democratici”. Sentendomi escluso e pur tuttavia convinto da sempre, come Churchill, che la democrazia fosse “la peggiore forma di governo, eccetto che per tutte le altre forme che si sono sperimentate finora”, l’effetto fu che quella restò la prima e l’ultima riunione a cui io abbia partecipato.
Quando appresi però che anche in ambito giudiziario si era costituito un gruppo denominato “magistratura democratica”, la cosa francamente mi destò una certa sorpresa, dato che da semplice ufficiale di polizia giudiziaria avrei preferito che “aggettivi” divenuti, in un certo uso comune, politicamente “colorati” restassero estranei a qualunque operatore giudiziario. Anche semplicemente presumendo (non ho dati in proposito) che non abbia dato luogo ad alcuna disposizione di legge ordinaria, il contenuto dell’articolo 98 della Costituzione, secondo cui “si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d'iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all'estero”, pare di per se stesso sufficientemente indicativo della volontà dei Costituenti di tutelare, quanto meno in termini di immagine, la posizione di “terzietà” ipotizzabile per particolari servitori dello Stato.

Qualche concreta preoccupazione la ebbi invece nel momento in cui si seppe che la sanità annoverava la “medicina democratica”. La prospettiva di poter finire, anche per una banale appendicectomia, nelle mani di una qualsiasi equipe composta da persone elette dal popolo, ancorché democraticamente, anziché da soggetti selezionati attraverso concorsi e titoli professionali non mi sembrò infatti per niente rassicurante.

Per chiudere il cerchio in tema di uso ed abuso dell’aggettivo “democratico”, infine, forse niente è più appropriato di quella vignetta di Forattini in cui, con pochissimi tratti, è rappresentato un litorale con un cartello a stampa recante “SPIAGGIA LIBERA”, integrato in caratteri a mano dal Pasquino di turno con l’aggiunta “democratica e antifascista”, con un’altra formula, vale a dire, altrettanto abusata per decenni senza avvertire che l’integrazione dell’aggettivo “democratico”, che già vuol dire anche “antifascista”, con l’aggettivo “antifascista” equivale ad ammettere la possibilità della esistenza anche di una categoria di democratici fascisti. Se uno dicesse di sé di essere “onesto e antiladro”, non darebbe infatti, allo stesso modo, un analogo implicito riconoscimento ad una categoria di “onesti e ladri”, che probabilmente esiste davvero ma che richiederebbe tutt’altro discorso?

Se la nascita del Partito democratico ha offerto lo spunto attuale sulla democrazia, qualche curiosità irrisolta me la trascino da sempre anche riguardo a qualche aspetto della nostra Costituzione.
Premesso che la Carta costituzionale rappresenta sicuramente uno dei frutti più riusciti della produzione giuridica del nostro paese, non solo per il fatto che a distanza di tanti anni dalla adozione necessiti solo di pochi ancorché importantissimi aggiornamenti ma anche sotto il profilo linguistico, con il massimo del rispetto dovuto al documento mi permetto di ricavarne qualche interrogativo proposto da una lettura da uomo della strada di taluni passaggi.

L’articolo 1, come già riportato in altra parte, stabilisce dunque che “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
L’art. 139 prevede invece che “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”.

Naturalmente, pur essendo nato sotto il penultimo Re, non nutro alcuna nostalgia monarchica, anche se debbo ammettere che la mia fede nella forma repubblicana, imposta dalla ragione, purtroppo si è progressivamente attenuata non solo e non tanto per i costi esorbitanti rispetto a quelli delle monarchie che ancora reggono dignitosamente molti degli stati europei quanto per le perplessità procuratemi dalla disinvolta sollecitudine con cui alcuni presidenti uscenti sono recentemente passati - dalla sera alla mattina, letteralmente - dalla posizione di garanti alla militanza attiva in schieramenti di parte, naturalmente senza alcuna violazione di norme scritte ma con una evoluzione dello stile in cui il predecessore Einaudi avrebbe probabilmente avuto qualche difficoltà a riconoscersi.

Al di là dei comportamenti degli uomini, comunque, la combinazione dei due articoli della costituzione appena richiamati mi è parsa da sempre poco agevole, visti i contenuti.
In pratica, da sempre mi è venuto di chiedermi cosa accadrebbe il giorno in cui si accertasse che la maggioranza dell’elettorato fosse diventata monarchica.
Il fatto che la forma repubblicana non possa essere oggetto di revisione costituzionale, non contraddice infatti l’affermazione dell’articolo 1 della Carta, che stabilisce che “la sovranità appartiene al popolo”?

Naturalmente so bene che lo stesso articolo 1 prevede anche che detta sovranità sia esercitata “ nelle forme e nei limiti della Costituzione”, la qual cosa taglia senza dubbio la testa al toro sotto il profilo formale riguardo all’auspicio della eternità della forma repubblicana.

Dal punto di vista sostanziale, però, le cose stanno in termini ben diversi, che fanno venire in mente un colloquio - nell’antica Grecia - tra Pericle e il generale Alcibiade, di cui merita che si riporti un breve stralcio.

Alcibiade: «Dimmi, o Pericle, potresti insegnarmi che cosa è la legge? ».
Pericle: «... Tutte queste che il popolo in assemblea approva e scrive, indicando quel che bisogna e quel che non bisogna fare, sono leggi».
Alcibiade: «Ma ciò che pochi uomini mettono per iscritto, senza persuadere la maggioranza, bensì comandandola, la definiremo prevaricazione oppure no?».
Pericle: «Credo che tutto ciò che si costringe qualcuno a fare, senza il suo consenso, mettendolo per iscritto oppure no, sia prevaricazione piuttosto che legge».
Alcibiade: «... nego allora che sia legge quanto il tiranno ordina e scrive, non con la persuasione».

Anche senza avere il temperamento impetuoso del generale ateniese, è probabile che in caso di ipotetica svolta monarchica nella maggioranza degli elettori, i distinguo dei giuristi avrebbero poco spazio e per la Carta sarebbero tempi duri.

Un altro articolo della Costituzione che mi è sempre sembrato incompleto è quello, il 59, recante la previsione di cinque senatori a vita di nomina presidenziale accanto ai Presidenti della Repubblica uscenti.
L’istituto risponde, evidentemente, alla opportunità di consentire allo Stato non solo di non disperdere l’esperienza di coloro che ne siano stati a capo ma anche di mettere a frutto le qualità di altri “cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico o letterario”.
Giusto, giustissimo, che anche lo Stato moderno consenta ai “vecchi” saggi, come nell’antica Roma, di mettere la propria esperienza a disposizione della comunità, con le stesse prerogative riconosciute ai senatori eletti. Quello che non torna, invece, è che ai senatori a vita sia riconosciuto anche il diritto di voto, che, se “la sovranità appartiene al popolo”, non si vede perché debba e possa essere esteso a chi dal popolo non abbia ricevuto alcun mandato di rappresentanza.
Se poi, come accaduto di recente, mentre non si hanno tracce di quelle perle di saggezza, super partes o almeno non biliose, e di quegli interventi illuminanti che ci si sarebbe aspettati dai designati a vita, accade anche che il voto di detti senatori addirittura capovolga le risultanze di una consultazione elettorale, il bilancio tra ciò che l’istituto dà o dovrebbe dare e quello che toglie in termini di democrazia rappresentativa non può essere certamente considerato in attivo. Dispiace, dispiace veramente, dover esprimere un giudizio del genere, ma se "una testa, un voto" è l’elemento qualificante dell'aggettivo “democratico”, la volontà dell’elettore analfabeta deve contare, sempre, più di quella di un non eletto, anche se insignito di un Nobel e sempre ammesso e non concesso che il Nobel significhi ancora qualcosa dopo che è stato assegnato a persone di cui ancora si attendono le opere che avrebbero dovuto giustificarlo.

Se si sposta lo sguardo dalla politica alla televisione, gli argomenti e le stranezze, per usare un eufemismo, meritevoli di qualche osservazione sono ancor più all’ordine del giorno.
Sere fa, ad esempio, mi è capitato di sentire Di Pietro che in dibattito accusava Mastella di essersi voluto rimettere al più comodo giudizio dei suoi colleghi politici del Tribunale dei ministri piuttosto che a quello della magistratura ordinaria, come lui aveva invece fatto in occasione di vicende di “Mercedes” e altro da cui era poi uscito completamente assolto. Accortosi della gaffe, precisava poi, finendo dalla padella nella brace, che i colleghi che l’avevano giudicato non erano quelli di Milano con i quali aveva operato ma quelli di Brescia.
Pochi giorni dopo, in un’altra trasmissione, ho appreso che l’organo di disciplina degli avvocati istruisce ogni anno, per ogni mille iscritti, 217 procedimenti in Finlandia, 193 in Danimarca, 44 in Grecia e solo 2,3 procedimenti in Italia.
Entrambi gli episodi mi hanno riproposto i quesiti che mi viene naturale pormi in ogni occasione del genere.
Come si sa, attualmente l’azione disciplinare per le professioni spetta ai relativi ordini e per i magistrati al CSM. Ma qualcuno ha mai provato a chiedersi cosa succederebbe se gli avvocati fossero giudicati, ad esempio, dall’ordine degli ingegneri, gli ingegneri dall’ordine dei commercialisti, i commercialisti dal CSM, i magistrati dall’ordine dei geometri, i geometri dall’ordine dei notai, i notai dall’ordine dei medici, i medici dall’ordine degli architetti e così via? E c’è chi sarebbe pronto a scommettere un cent che il dato del 2,3 per cento dell’ordine degli avvocati sarebbe lo stesso se la competenza disciplinare fosse affidata all’ordine degli ingegneri? E lo stesso Di Pietro potrebbe essere altrettanto tranquillo se dovesse essere valutato, ancorché innocente, dall’ordine dei geometri?

Ovviamente non si tratta di una questione di onestà o non solo di onestà, ma semplicemente del fatto che essere giudicati da chi esercita la stessa professione e ne conosce ogni risvolto è oggettivamente più rassicurante - per l’onesto - che essere rivoltato come un calzino da estranei forzatamente non in grado di comprendere fino in fondo le difficoltà che possono giustificare i comportamenti del soggetto sottoposto a giudizio.
Assurdità, naturalmente, frutto di momentanee fantasie a briglia sciolta. Ma, passando dal serio al faceto, non nego che anch’io tutto sommato preferirei essere giudicato da miei ex colleghi, anche se il rischio di trovarsi a che fare con qualche inatteso invidioso - solo la miseria è senza invidia (Giovanni Boccaccio) - è oggettivamente più forte nella categoria di appartenenza che in altre e pur sapendo che “l'invidia dell'amico è peggio che l'insidia del nemico”.

Le conclusioni, invece, di certi dibattiti televisivi nobilitati dalla presenza di illustri tuttologi filosofeggianti, nei quali spesso “c'è semplicemente un'ignoranza da analfabeti e un'ignoranza da dottori” (M. de Montaigne), quando non irritano farebbero addirittura cadere le braccia, se non si sapesse che per molti la individuazione di “un buon capro espiatorio vale quasi quanto una soluzione”. (Anonimo).
Mi riferisco soprattutto a quelli per i quali la colpa di qualsiasi devianza individuale è sempre della società, che quindi, prima di punire, dovrebbe ricominciare ad educare i cittadini iniziando dalla scuola.
Impostazioni del genere, per chi è abbastanza avanti negli anni, non fanno bene neppure alla salute, perché se uno della mia età dovesse aspettare, per vedere un qualsiasi miglioramento del mondo, che a prenderne le redini siano i bambini attualmente alle elementari dovrebbe campare almeno fino a centotrenta anni. In altri termini, dovrebbe arrendersi subito senza condizioni o lasciarsi andare non so a quali nefandezze, per cercare di raddrizzare qualcosa più a breve termine.
“E' un peccato il non fare niente col pretesto che non possiamo fare tutto” affermò una volta Winston Churchill, uno per il quale la coerenza significava qualcosa se alla fine della seconda guerra mondiale, rivendicando i meriti del popolo da lui guidato, poté dire con incontestato orgoglio che "mai, nella storia dei conflitti umani, molti dovettero così tanto a così pochi".

Sempre a proposito di fenomeni collettivi dei giorni nostri, poi, a me non è ancora riuscito di elaborare la curiosa tesi dei soliti “buoni” in servizio permanente effettivo, i quali, di fronte alle violazioni delle nostre leggi da parte dei primi immigrati apparsi nella nostra città, si premurarono subito di farci sapere che l’immigrazione selvaggia rappresentava un evento inarrestabile e che, di conseguenza, sarebbe stato del tutto inutile cercare di contrastarla. Ragionando nello stesso modo, siccome tutti i peccati elencati nei dieci comandamenti sono sopravvissuti a venti secoli di cristianesimo, si potrebbe concludere che tanto varrebbe smettere di cercare di porvi un argine. La falsa misericordia di certe sconsiderate teorie, probabilmente non del tutto disinteressate, è evidentemente responsabile o corresponsabile della rinuncia dello Stato a limitare adeguatamente gli ingressi ed a spalmarli invece sui tempi necessari per la progressiva integrazione dei nuovi venuti. Eppure sarebbe bastata un’occhiata ad una delle cosiddette leggi di Murphy, quella recante la facile previsione che “se qualcosa può andar male…..lo farà”, per allarmare chi di dovere prima che la sicurezza dei cittadini si riducesse nelle condizioni in cui versa e che molti innocenti ci rimettessero la vita. Se anche ai tempi dell’antica Roma i popoli ai confini avessero potuto entrare con la facilità di oggi, in pratica senza contrasti adeguati al fenomeno, probabilmente l’impero nato con Augusto sarebbe finito con Augusto stesso, anziché quattrocentosettantasei anni dopo Cristo, allorché molti degli invasori ormai parlavano il latino. La storia, è vero, non si fa con i se e i ma. Immaginare però che se la Roma antica si fosse comportata come quella attuale non ci sarebbero state probabilmente né “La divina commedia” né “La Gioconda” è un’ipotesi che francamente non mi rallegra affatto.

Proprio in questi giorni, però, sembra debbano vedere la luce provvedimenti in grado di fronteggiare adeguatamente la situazione.
Se sarà cosi', e c’è da dubitarne, meglio tardi che mai. Ma comunque sia, possibile che nessuno avverta che ridursi a cercare di arginare un fenomeno in atto da più di vent’anni con lo strumento del decreto legge, vale a dire con lo stesso provvedimento di urgenza utilizzato in occasione di terremoti, alluvioni o altre imprevedibili ed improvvise calamità naturali, è di per sé una cosa scandalosa? Se uno si mettesse a studiare i logaritmi solo la notte prima dell’esame, che figura si pensa farebbe davanti agli esaminatori?
Aspettiamo, dunque, anche se a questo punto è difficile prevedere risultati che vadano oltre l’ottimismo di un’altra legge di Murphy: “Stiamo progredendo. Le cose peggiorano più lentamente”.

Chi ha invece pochi margini di peggioramento sembra ormai la televisione. Quando Woody Allen ha osservato che “le maggiori differenze fra i vari canali televisivi riguardano le previsioni del tempo” non è affatto andato lontano dal vero. Prima di lui, fu invece Marcello Marchesi ad affermare che “errare humanum est, perseverare televisivum”.
Praticamente in tutti i canali pubblici e privati, ad esempio, non passa settimana nella quale, prima della fine di qualche programma, qualcuno non faccia il solito accorato appello per raccolte di fondi, spesso anche attraverso l’acquisto di azalee, gardenie, arance, mele e altri simili generi di consumo, in favore dei tanti soggetti – non sarebbe meglio se si unissero le forze, per evitare che i fondi vadano solo in stipendi? – impegnati in “ricerche” in campo medico per la sconfitta di quelle malattie che ancora affliggono l’umanità.
Se bastasse l’intenzione, non ci sarebbe niente da dire. Ma siccome le questue, le collette e le raccolte di fondi che, fino a pochi anni fa, erano assoggettate alla preventiva licenza del questore (la norma fu abrogata all’interno - chissà perché - di una legge che riguardava il finanziamento dei partiti) ora sono completamente libere e quindi, in altri termini, “senza obbligo di rendiconto” a meno che non se ne scoprano gli intenti truffaldini, ogni volta che mi capita di sentirne l’appello non posso fare a meno di chiedermi se chi presta la propria faccia a sollecitare le offerte si sia mai chiesto a chi saranno effettivamente consegnati i proventi, e in quale misura, e, qualche volta, se non avverta l’opportunità di far sapere quanto abbia personalmente versato, dato che “non è magnanimo chi è generoso con la roba altrui”. (Seneca).

Di queste cose si sa troppo poco, tranne che in qualche sito internet, per essere invogliati a mettere ogni volta la mano al portafoglio.
Già il fatto che gli eventuali proventi raccolti finiscano in così tanti rivoli fa dubitare di per sé che la conseguente attività di “ricerca”, che quasi sempre necessita invece di investimenti di ben altra consistenza, possa avere un qualsiasi risultato concreto. E, comunque, parrebbe ragionevole aspettarsi che chi fa la ricerca, ricordando il proverbio secondo cui “chi cerca trova”, si senta in dovere di far almeno sapere ogni tanto ai finanziatori cosa abbia effettivamente trovato dato che se uno non trova mai niente, neppure per caso, non si vede perché si dovrebbe continuare a finanziarlo.

Anche Cristoforo Colombo, infatti, le Indie per le quali si era messo in viaggio non le trovò ma il fatto che non fosse stato con le mani in mano ed avesse perciò scoperto casualmente le Americhe fece si che i finanziatori non si sentissero truffati.

Riguardo ai programmi sportivi, invece, quanti non hanno mai desiderato di poterli vedere con i rumori di fondo ma senza la voce del telecronista di turno?
In occasione delle olimpiadi di Seul, un noto telecronista di pugilato tutt’ora in servizio, commentando un incontro in cui uno dei pugili risultava nato a Tegucigalpa ed aveva sulla maglietta la sigla HON (Honduras), si sentì in dovere di spiegarci che HON voleva dire Hong Kong e che Tegucigalpa ne era il principale sobborgo.
E che dire poi dell’informazione? A me non è mai riuscito di capire, ad esempio, perché nel periodo estivo tutti i telegiornali si affannino a comunicarci quanti milioni (e “le cifre tonde sono sempre false”, secondo il poeta e saggista Samuel Johnson) di veicoli si sposteranno in occasione dei vari fine settimana o delle ferie di luglio e di agosto.
Siccome chi potrebbe aver interesse a ricevere il messaggio è esclusivamente chi è già in viaggio e siccome chi è in viaggio è impossibilitato (in genere) a vedere la televisione, che scopo ha diffondere ad ogni ora del giorno notizie prive di qualsiasi utilità pratica e capaci solamente di affliggere non solo chi deve restare al lavoro ma soprattutto le persone escluse dalla kermesse per motivi economici o di salute? Se fosse possibile rilevare le cause delle depressioni riscontrabili in coloro che le vacanze non possono farle, sono convinto che una bella percentuale risulterebbe addebitabile alla incredibile esaltazione degli annuali “esodi” tanto cari ai telegiornali.
Qualche anno fa, tra l’altro, trovandomi costretto a casa per motivi familiari mi volli levare lo sfizio di annotare, nei mesi di luglio ed agosto, le cifre degli esodi fornite settimanalmente da uno dei maggiori telegiornali e, nello stesso tempo, le cifre dei corrispondenti controesodi. Il bilancio finale risultò incredibilmente tragico: secondo quel telegiornale, a fine agosto tre milioni e mezzo di italiani risultavano partiti ma mai rientrati e quindi scomparsi senza lasciare tracce! Peccato che nessuna televisione si sia accorta di quella che, se autentica, sarebbe stata l’unica notizia realmente meritevole di figurare in testa alle cronache.

Una abitudine assolutamente inqualificabile, che caratterizza praticamente sia le televisioni pubbliche che le private, è poi quella di mandare subito, in occasione dei fatti di sangue di cui le cronache si debbono occupare sempre più spesso, un proprio inviato (in genere tra i più giovani) con l’unico compito di verificare se i familiari delle vittime di turno perdonano chi ha ucciso i loro cari. Il fanatismo perdonistico che spinge gli addetti all’informazione ad andare a ficcare il naso in stati d’animo tanto personali, su cui a caldo perfino il sacerdote si astiene in genere dall’indagare, è incomprensibile. L’insistenza di certi ragazzotti o ragazzotte che con faccia di circostanza (“Oggi anche il cretino è specializzato”, diceva Ennio Flaiano) non mostrano alcun imbarazzo a tallonare persone sconosciute che hanno ben altro a cui pensare, è così insopportabile da farmi augurare ogni volta che l’interrogato di turno risponda alla domanda “lei perdona?” semplicemente con una sberla o un calcio in uno stinco, chiedendo all’incauto interrogante “e lei perdona?”. Anche se per ora il desiderio non si è avverato, io continuo a non disperare, convinto, come Joseph Pulitzer, che senza risposte adeguate “una stampa cinica e mercenaria prima o poi creerà un pubblico ignobile” .

Un’altra incomprensibile abitudine, diffusasi rapidamente da qualche tempo, è quella degli applausi durante i funerali, non solo all’uscita dalla chiesa ma addirittura durante il rito.
Un tempo, non troppo lontano dato che ne sono testimone diretto, in chiesa non si sentiva volare una mosca e, durante i funerali, anche all’esterno dell’edificio di culto il massimo segno di omaggio era ritenuto togliersi il cappello e restare immobili in raccoglimento durante il transito del feretro. Come e perché si sia passati da una silenziosa compostezza del genere alla rumorosità attuale non so spiegarmelo. Ma l’effetto procuratomi da siffatta evoluzione dei comportamenti è lo stesso, mutatis mutandis, di quando, abituato in gioventù solo a sale da ballo del mattone, mi è capitato poi di entrare per pochi minuti in una discoteca. Probabilmente sarà l’età, ma non ne sono del tutto convinto, perché anche “se un milione di persone crede ad una cosa stupida, la cosa non smette di essere stupida”. (Anatole France).

Un ultimo commento è suggerito dalla attualità di quanto si è visto in alcuni campi di calcio, ad opera di ultras, nel giorno del tragico fatto dell’autogrill di Arezzo.
Secondo il vocabolario della lingua italiana Zingarelli l’ultras è "un tifoso fanatico di una squadra sportiva, spesso inserito in un gruppo". La parola, usata per la prima volta nel 1969 dal gruppo sampdoriano "Ultras Tito Cucchiaroni", deriva dal francese "ultra", che oltralpe indicava un sostenitore intransigente della monarchia assoluta durante la Restaurazione e che in tempi più recenti individua un reazionario, sostenitore della destra ultra nazionalista. Anche in Italia il termine è stato utilizzato per indicare gli appartenenti a gruppi politici estremistici di destra e di sinistra, prima di passare ad identificare alcune frange di tifosi politicizzati e pian piano tutti i gruppi della curva.
Se è vero che i nomi significano qualcosa, è da capire perché molte società, molti giocatori e spesso anche gli stessi responsabili dell'ordine pubblico possano intrattenere rapporti con gruppi, “capi tifosi” e “ultra” che si richiamano a terminologie ed ideologie che non si vede cosa possano avere a che fare con il tifo sportivo.

Che cosa vuol dire "capo tifoso", se il tifo mira essenzialmente a dare ogni tanto innocente e libero sfogo alla irrazionalità del sentimento, soprattutto quando si hanno per il resto delle proprie giornate comportamenti di vita rigorosamente improntati al rispetto di ogni regola? E se così è, che senso ha la prospettiva di aver a che fare anche allo stadio – da semplici tifosi - con un qualsiasi "capo" quando si va lì proprio per evadere per un paio d'ore dagli inevitabili compromessi imposti dalla vita di relazione con persone - superiori e colleghi di lavoro, vicini di casa o addirittura familiari - con alcune delle quali, potendolo, talora  non si vorrebbe avere niente a che fare?
Un tifoso senza altri interessi oltre quello di un momento di svago, non può - a differenza del “tifoso di professione” capace di andare alla partita per trascorrervi incredibilmente tutto il tempo con le spalle rivolte al campo di gioco - né essere un fanatico né aver bisogno di essere organizzato da nessuno né di sopraffare nessuno.
Che la impostazione dell’ordine pubblico all’interno dei nostri stadi sia completamente sbagliata è dimostrato, se mai ce ne fosse ancora bisogno, dal ben diverso spettacolo offerto dai campi ove si è appena concluso il penultimo turno delle partite di qualificazione al campionato europeo. Da Glasgow a Telaviv, dove pure qualche problema di sicurezza sarebbe stato ipotizzabile, il pubblico è apparso in genere separato dal campo di gioco unicamente da delimitazioni ad archetto più scarne di quelle a margine di alcuni marciapiedi della circonvallazione di Lucca, all’incirca di un metro di altezza, senza reti né vetri antiproiettile.
Una ventina di anni fa, in una sede in cui veniva ancora una volta richiesto di alzare le già alte reti all’interno del porta Elisa, mi piace ricordare di aver proposto, in assoluta controtendenza, di azzerare invece completamente reti e barriere, parendomi che andando dietro alla evoluzione delle prestazioni dei vandali avremmo fatto la fine dei costruttori della torre di Babele. Ovviamente una ipotesi del genere non fu minimamente presa in considerazione. E così si è andati avanti continuando a gestire stadi e ordine pubblico non in base a precise ed autonome scelte dello Stato ma secondo i criteri imposti progressivamente dai comportamenti dei facinorosi, appagandosi ogni volta del bilancio del giorno senza pensare che domani è un altro giorno e che certe cose non si risolvono da sé.

Praticamente, ci si è adeguati alla formula miope del “tutto procede secondo i piani, prestabiliti dal nemico” che era solito ripetere scherzosamente uno degli insegnanti del corso ufficiali a cui partecipai una quarantina di anni fa, privilegiando il quieto vivere dell’uovo di oggi rispetto alla gallina di domani con il risultato che il domani è arrivato e la gallina non si sa dove sia andata a finire.

Da amante e tifoso del calcio (interista), mi piace portare ad esempio i comportamenti dei tifosi di un altro sport individuale che mi appassiona da sempre almeno in egual misura, vale a dire il pugilato.
Chi abbia avuto occasione di assistere dal vivo ad una riunione di boxe, la “noble art” che per antonomasia fonde ed esalta lealtà e agonismo, ritmo e danza, forza fisica e rispetto per l’avversario, non può aver mancato di apprezzare come nelle tribune e sottoring, dove se si andasse alle mani si potrebbero vedere cose da western per la presenza nel pubblico di tanti praticanti o ex campioni, non si siano mai visti episodi da cronaca nera, neppure di fronte a verdetti arbitrali anche più scandalosi di quelli della recente “calciopoli”.
A qualche esagitato tifoso di altre discipline non farebbe male provare almeno una volta a salire a viso aperto tra le dodici corde di un ring ed a trovarsi, senza possibilità di scappare e potendo contare solo sulle proprie forze, di fronte ad un avversario di pari peso ed età, per rendersi subito conto come il rispetto delle regole sia qualcosa di diverso da un semplice optional ed anzi appaia da subito addirittura conveniente.
Per gratitudine nei riguardi di una disciplina che seguo fino dai tempi del primo incontro trasmesso dalla RAI una cinquantina di anni fa (Pozzali-Lombardozzi, titolo italiano pesi mosca), augurandomi di essere letto mi piace sollecitare da chi può un intervento inteso ad assicurare alla Associazione Pugilistica Lucchese una sede più appropriata di quella utilizzata attualmente presso lo Stadio comunale, prima che le difficoltà spengano gli entusiasmi di chi tiene in vita, a qualsiasi titolo, una attività così importante.
Se ciò si verificasse, avrei la soddisfazione, dopo tante parole gettate al vento in libertà, di avere fatto anche qualcosa di concreto.

A presto, dato che scrivere è un piacere, non fosse altro perché “scrivere è un modo di parlare senza essere interrotti”.(Jules Renard).

Lucca 18 novembre 2007
Luigi Pinelli - già Comandante della polizia municipale di Lucca

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