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Polizia municipale e trattamenti sanitari obbligatori.
Riflessioni e puntualizzazioni, dalla parte dei vigili urbani

di Luigi Pinelli

La storia ha inizio circa alle ore ventitré di un giorno di maggio dell’anno 1978, allorché all’ignaro piantone del comando della polizia municipale di Lucca fu recapitato un certificato medico contenente la proposta di trattamento sanitario obbligatorio nei confronti di un soggetto affetto da malattia mentale, da attuarsi previa ordinanza del Sindaco a mente della legge 13 maggio 1978, n. 180, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 133 del 16 maggio 1978 ed in vigore dal giorno successivo a quello della pubblicazione.
Non ricordo se al momento gli uffici comunali fossero già in possesso del testo della legge, dato che all’epoca l’Ente mi pare avesse ancora l’abbonamento per un’unica copia della Gazzetta, che in genere arrivava però oltre, se non abbastanza oltre, il termine del “giorno successivo a quello in cui essa è pubblicata” fissato - per i capoluoghi di provincia - dal D.P.R. 28 dicembre 1985, n. 1092, recante il “T.U. delle disposizioni sulla promulgazione delle leggi”. Allo scrivente, comunque, i contenuti della novella erano già sommariamente noti, avendone seguito - come d’abitudine, anche se internet non c’era ancora - l’iter formativo attraverso le notizie di stampa e le riviste di categoria.

Benché la legge non recasse alcun riferimento alle competenze della polizia municipale, il sottoscritto si attivò per l’immediata stesura della prima ordinanza di ricovero, il cui testo fu improvvisato con il concorso e la sottoscrizione dell’allora e attuale Sindaco prof. Mauro Favilla all’incirca - se la memoria non inganna - verso le due della notte.
Nei giorni immediatamente successivi alla prima applicazione della importante novità normativa piovuta d’acchito sul Comune, in relazione alle nuove competenze l’ufficio dei servizi sociali (non sono certo che si chiamasse già così) convocò una riunione per fare il punto della situazione e precisare il da farsi per il prosieguo.
Siccome all’epoca in Comune “vigeva” (vige ancora?) la regola, non scritta ma comoda per molti, che chi occasionalmente si fosse reso disponibile una volta per un qualsiasi adempimento, ancorché istituzionalmente non spettante, diventasse automaticamente titolare della relativa funzione, anche lo scrivente fu naturalmente invitato a parteciparvi. La stessa cosa si verificò, ad esempio, riguardo alla legge regionale sul randagismo, che il sottoscritto ritenne di segnalare alla giunta municipale con il risultato di riceverne, infatti, l’incarico di curare con il veterinario Dr. Pagani l’istituzione della anagrafe canina. Da quella esperienza, però, almeno il mio cane Argo ricavò il privilegio del tatuaggio con il numero 0001.

Ritornando alla vicenda dei TT.SS.OO., alla riunione presso i servizi sociali partecipò anche il direttore (non essendo sicuro del nome, lascio ad altri di individuarlo) dell’ospedale di Maggiano, di cui è ancora impressa soprattutto la raccomandazione - sul presupposto che la riforma psichiatrica si era “caratterizzata principalmente per la negazione di idea di disturbo mentale quale forma di devianza sociale”- di non coinvolgere nelle operazioni di ricovero gli agenti di polizia, dovendosi ritenere che anche la sola vista di una “divisa” rappresentasse un elemento di ulteriore e non più tollerabile turbativa per la mente degli ammalati.
Va ricordato, in proposito, che prima della 180 la materia era regolata dalla legge 14 febbraio 1904, n. 36, che prevedeva che “l’ammissione degli alienati nei manicomi” fosse “chiesta dai parenti, tutori o protutori… o … da chiunque altro nell’interesse degli infermi e della società” e “autorizzata, in via provvisoria, dal pretore sulla presentazione di un certificato medico e di un atto di notorietà, … e… in via definitiva dal tribunale”.
All’articolo 2 recava anche, però, che “l’Autorità di pubblica sicurezza può, in caso di urgenza, ordinare il ricovero, in via provvisoria, in base a certificato medico, ma è obbligata a riferirne entro tre giorni al Procuratore del Re”.

Nella sostanza, dunque, l’ordine di ricovero urgente era di competenza della Questura e si concretizzava in un formale provvedimento di polizia, con la naturale conseguenza che a portarlo ad esecuzione non dovessero essere altri che le forze di polizia dello Stato, quasi che l’alienato fosse un delinquente anziché un ammalato.
Il superamento di una imbarazzante impostazione del genere, atteso da anni e finalmente operato dalla legge 180, invece, affidava ora interamente l’ammalato alla competenza degli organi sanitari fino dal momento del provvedimento di ricovero, da adottarsi infatti non più dal Questore in veste di autorità di pubblica sicurezza ma dal Sindaco quale autorità sanitaria locale, ovviamente sempre su proposta del medico curante ora obbligatoriamente convalidata, però, dalla firma di altro sanitario di struttura pubblica.

La prima ed unica riunione tenutasi presso i servizi sociali del Comune si concluse però, data la complessità delle innovazioni, solo con un sommario esame della novella ma con l’impegno di ritrovarsi nuovamente a breve termine soprattutto per definire le modalità della esecuzione del ricovero, subito dopo il ritorno da un breve viaggio in Africa - già programmato - del direttore sanitario dell’ospedale di Maggiano. Tale intendimento, tuttavia, non ebbe mai un seguito in quanto, nonostante le molte sollecitazioni, a tutt’oggi lo scrivente in verità ignora ancora se e quando l’illustre sanitario sia poi concretamente rientrato a Lucca. Per fortuna, dato che le proposte di ricovero continuavano a pervenire e naturalmente dovevano essere evase nei ristretti termini di tempo stabiliti dalla legge, le difficoltà iniziali poterono essere progressivamente superate soprattutto grazie alle intese assunte dal Comune con le pubbliche assistenze locali, in termini che non si è in grado di riferire esattamente ma che escludevano in concreto la polizia municipale da interventi diretti sugli ammalati in qualunque fase della materiale esecuzione dei ricoveri.

Continuando a seguire, comunque, gli sviluppi delle novità applicative della legge 180, si ebbe in seguito anche la possibilità di partecipare a suo tempo ad un importante convegno organizzato in materia dall’ex ministro dei lavori pubblici dott. Enrico Ferri, allora pretore di Pontremoli, ricavandone sia molte ed interessanti valutazioni di carattere generale, riguardo alle quali un non addetto ai lavori ritiene di poter esprimere solo il disappunto che a quindici anni dalla entrata in vigore della riforma da parte di qualche medico continuassero a pervenire al Sindaco richieste di T.S.O. ancora in base alla abrogata formula del “pericoloso a sé e agli altri” prevista nel regime antecedente (a riprova che alcuni di coloro che pretendevano di determinare le competenze della polizia municipale non avevano neppure letto il testo della legge), che indicazioni preziose riguardo al ruolo della polizia municipale, su cui lo scrivente ritiene invece di aver sufficiente titolo per un più analitico esame della evoluzione che ne ha segnato negativamente i contorni dal 1978 ad oggi.

Innanzi tutto va dunque ricordato, come in altri casi, che l’entrata in vigore della legge 180 colse gran parte dei Comuni assolutamente impreparati, determinando una situazione di grande iniziale incertezza non solo per la assoluta novità delle nuove competenze attribuite loro ma anche per la corsa allo “scaricabarile” di altri soggetti che, forti di una vera o presunta esperienza pregressa nel settore della malattia mentale anche se non sempre accompagnata da adeguate cognizioni giuridiche, troppo spesso ritenevano di poter fare “la voce grossa” con uffici o singoli dipendenti comunali non ancora sufficientemente padroni della materia, cercando di imporre soluzioni all’insegna del pro domo sua ed avanzando pretese a dir poco assurde, che avevano soprattutto il risultato di creare confusione e di alimentare tensioni che si sono poi protratte negli anni.
A livello istituzionale va dato invece atto che, in un primo momento, il Ministero dell’Interno partì esattamente come ci si sarebbe atteso, affermando che “l’accompagnamento ai luoghi di cura non è più da annoverarsi tra le misure di polizia, ma deve essere una mera operazione sanitaria rivolta alla tutela della salute e dell’incolumità dell’alienato, come tale competenza dell’apposito personale infermieristico” ed evidenziando che “l’atto materiale di cattura dell’alienato, trattandosi appunto di un malato particolare, richiede particolare accortezza e cognizioni tecnico-scientifiche, tale che può essere compiuto nella maniera idonea soltanto da personale sanitario, cui è affidato, e che meglio di chiunque altro è in grado di valutare, sempre nell’ottica del fine terapeutico per cui è chiamato ad agire, le modalità e le caratteristiche cui deve adeguarsi siffatto specifico intervento, diretto a forzare la personalità dell’ammalato”.
Negli anni successivi, tuttavia, a seguito di intuibili ed interessate sollecitazioni di parte e probabilmente, non va disconosciuto, anche per le difficoltà oggettive di assicurare la disponibilità permanente del personale sanitario a cui affidare - secondo la circolare di cui sopra - l’attuazione delle competenze predette, lo stesso Ministero, assecondato naturalmente anche dall’ancor più interessato Ministero della salute, iniziava sorprendentemente ad esibirsi in una serie di sottili ma spericolate contorsioni interpretative sempre meno ancorate ai contenuti normativi di riferimento, finendo per approdare infine, dando ragione all’adagio secondo cui consultando abbastanza esperti si può trovare conferma a qualsiasi opinione (Anonimo), addirittura sulla sponda opposta rispetto a quella di partenza.

Attualmente, infatti, in forza soprattutto delle due circolari di detto Ministero n. 5300 del 24 agosto 1993 e n. 3 del 20 luglio 2001, la polizia municipale si vorrebbe coinvolta pesantemente non solo nella fase della ricerca dell’ammalato allontanatosi dall’abitazione, su cui non è impossibile convenire, ma anche nella sua eventuale immobilizzazione e nell’accompagnamento fino al luogo di cura, in immediata e aperta contraddizione invece con l’asserita opportunità di tenere lontane in ogni caso le “divise” da operazioni non più di polizia ma di natura esclusivamente sanitaria, ritenute come tali a ragione una conquista di civiltà.
Va detto, a proposito della acquiescenza con cui - scorrendo vari siti su Internet - Regioni e Comuni sembrano aver aderito alle interpretazioni ministeriali, che anche qualche sentenza di TAR ha portato oggettivamente acqua a quello che nella sostanza appare - analizzandone i presupposti giuridici erroneamente invocati a sostegno - un vero e proprio stravolgimento della lettera e dello spirito della legge 180, che fa costante riferimento - per l’attuazione delle disposizioni sanitarie contenutevi - esclusivamente agli organi sanitari.

Vediamo dunque di mettere meglio a fuoco qualche puntualizzazione in merito alle posizioni in cui il Ministero ha finito per trasferirsi a distanza di qualche anno dalle impostazioni iniziali già citate.
Riguardo all’accompagnamento dell’ammalato, il Ministero sostiene ora “che le funzioni … debbano essere svolte dagli operatori di polizia municipale per assicurare prioritariamente l’attuazione dei principi generali di tutela della persona fisica fissati … dalla legge 833/78, istitutiva del servizio sanitario nazionale”,… “ancorché tale attività di accompagnamento esuli dai compiti propri degli operatori di polizia municipale”.
Precisa poi, il medesimo Ministero, che “i vigili urbani devono accompagnare l’infermo di mente fino al luogo di cura, anche se fuori del Comune, perché intervengono nell’esercizio del potere di polizia amministrativa sanitaria, propria dell’autorità locale, e non in quello dell’attività di P.S.”.

Nessun commento meritano, evidentemente, le strampalate ma diffuse conclusioni che taluni singoli operatori sanitari hanno tratto da suddette indicazioni ministeriali, arrivando a pretendere che il vigile prenda posto all’interno dell’ambulanza o che addirittura debba farsi carico del trasferimento da un reparto ospedaliero all’altro di ammalati già ricoverati.
Restando al testo della circolare, invece, il primo rilievo è costituito dal fatto che, una volta affermato - chissà perché - che la polizia municipale è tenuta all’accompagnamento, subito dopo essa dia invece atto come tale attività “esuli dai compiti propri degli operatori di polizia municipale”: sul punto, evidentemente, non occorre spremersi le meningi per contraddire il Ministero, avendovi esso stesso già provveduto senza incertezze.
Nonostante un esordio siffatto, lo stesso Ministero continua in seguito a sostenere senza alcun imbarazzo che l’accompagnamento dell’ammalato faccia ugualmente carico ai vigili urbani, per due diversi ordini di motivazioni:
a - in esecuzione di un ordine del Sindaco, in quanto alle sue dirette dipendenze;
b - “poiché (i vigili, n.d.r.) intervengono nell'esercizio del potere di polizia amministrativa sanitaria, propria dell'autorità locale, e non in quello dell'attività di P.S.”.

Riguardo al punto a) non vi è dubbio che, riguardo ad una qualsiasi ordinanza del Sindaco, gli organi deputati istituzionalmente a verificarne l’attuazione, anche d’iniziativa, siano da identificarsi in genere e comunque nei vigili urbani, competenti perciò - nel caso qui in esame - a presenziare non solo all’inizio dell’operazione ma anche - ove occorra od ove comandati - ai suoi sviluppi fino alla conclusione del ricovero dell’ammalato nel territorio comunale. La singolarità e l’improponibilità, per mancanza di fondamento giuridico, dell’intero impianto ministeriale sta però nel fatto che la circolare confonda clamorosamente il controllo della attuazione dell’ordinanza con l’esecuzione della stessa.
Controllare che l’ordinanza sia eseguita in conformità dei suoi contenuti e nel totale rispetto della dignità dell’ammalato non equivale a dire che i vigili debbano anche intervenire direttamente sull’ammalato. Diversamente, equivarrebbe a dire che una ordinanza di demolizione di un’opera abusiva, mandata ugualmente ai vigili per la verifica dell’attuazione, comporti che i vigili debbano procedere non solo al controllo ma anche - direttamente - al materiale abbattimento del manufatto.
Che nei Comuni si trovino anche oggi vigili che fanno felicemente gli autisti di scuolabus, che si occupano a tempo pieno di notificazioni diverse da quelle del Corpo di appartenenza, che si prestano a portare fisicamente il labaro (altra cosa è la scorta al labaro) addirittura anche in manifestazioni di parte, che accettano insomma tranquillamente di essere impiegati in mansioni del tutto estranee alle qualifiche di polizia è un dato di fatto, il che indubbiamente dispiace non foss’altro perché non sempre è possibile distinguere la disponibilità autentica e solo mal utilizzata dalla consapevole e preordinata ricerca di situazioni di comodo rispetto alla maggiore gravosità di molti dei servizi effettivamente spettanti. Ma da qui a sostenere che tutto debba o possa essere fatto rientrare nelle competenze di istituto ce ne corre, soprattutto perché i vigili urbani sono tra i dipendenti comunali forse gli unici le cui attribuzioni sono esattamente definite dalla legge, senza possibilità di integrazioni per altra via (delibere, circolari, ecc.) quando i compiti assegnati non ineriscano alle funzioni di polizia municipale (legge 65/86). Se il vigile “vuole” fare “solo” il vigile, dunque, la cosa dipende soprattutto da lui, in base alle leggi vigenti. Il discorso naturalmente non comporta che occasionalmente e di fronte all’imprevisto lo stesso vigile non possa anche spazzare la strada o dare una mano in qualsiasi altro servizio (compreso quello degli infermieri), senza che questo - va ripetuto - comporti l’assunzione in via ordinaria e permanente di competenze istituzionalmente non spettantegli.

Quanto alle tesi ministeriali che nei TT.SS.OO i vigili intervengono nell'esercizio del potere di polizia amministrativa sanitaria, propria dell'autorità locale e come tali sarebbero legittimati all’uso della forza, è francamente difficile comprendere come impostazioni del genere abbiano potuto trovare credito anche a livello di qualche sentenza del giudice amministrativo, verosimilmente a causa di carenze dei rappresentanti in giudizio di parte avversa.
Il richiamo di un potere di polizia amministrativa sanitaria in capo ai vigili pare infatti poco più che una boutade rispetto alla materia in esame.
Intanto, qualcuno dovrebbe spiegare in cosa consisterebbe esattamente il potere di polizia amministrativa sanitaria, dato che l’art. 13 della legge n. 689/91 riconosce alla polizia municipale esclusivamente i “poteri” di polizia amministrativa spettanti a chiunque rivesta la qualifica di polizia giudiziaria, poteri che naturalmente si estendono ex lege anche alle ipotesi di violazioni amministrative previste da disposizioni di natura sanitaria.
Anche senza ricordare come in passato, guarda caso, la competenza dei vigili urbani in relazione a determinati contenuti del D.P.R.  del 26/03/1980, n° 327 (Regolamento di esecuzione della legge. 30 aprile 1962, n.283, e successive modificazioni, in materia di disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande) sia stata addirittura contestata (senza successo) proprio da operatori del servizio sanitario per motivi estranei alla presente trattazione, l’invenzione attuale di una qualifica di polizia amministrativa sanitaria francamente sembra dunque solo un modesto e fumoso espediente per far quadrare maldestramente un conto che altrimenti non torna.
Per migliore chiarezza, va ricordato infatti - a carattere generale - che gli appartenenti alla polizia municipale esercitano funzioni di ufficiali o agenti di polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 5 della legge quadro n. 65 del 1986, funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza a mente dell’art. 3 della medesima legge n. 65, e funzioni di organi di polizia amministrativa in forza dell’art. 13 della legge 689/81.
Proprio in virtù di detta generica ma generale qualifica di polizia amministrativa i vigili urbani sono legittimati appunto dal suddetto articolo 13 all’accertamento di qualsiasi violazione punita con sanzione amministrativa e, a tal fine, ad “assumere informazioni e procedere ad ispezioni di cose e di luoghi diversi dalla privata dimora, a rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici e ad ogni altra operazione tecnica”. Per gli accertamenti di tale natura, però, la legge 689/81 non prevede in nessun caso l’uso della forza, uso che dagli atti preparatori risulta escluso non casualmente ma in base ad una consapevole rinuncia, per tutte le infrazioni non costituenti reato, alla pretesa punitiva da parte del legislatore del 1981 in favore della salvaguardia di determinati diritti primari delle persone, diversamente da quanto previsto invece per le fattispecie di natura penale.
Se si considera poi che l’ordinanza con cui il Sindaco dispone il trattamento sanitario obbligatorio non prefigura, addirittura, alcuna sanzione amministrativa pecuniaria trattandosi di provvedimento inquadrabile, piuttosto, tra i provvedimenti contingibili ed urgenti in materia di sicurezza pubblica o d’ordine pubblico o d’igiene la cui mancata esecuzione da parte di chi ne sia destinatario comporta la denuncia ai sensi dell’art 650 del codice penale, salvo quant’altro, il richiamo della qualifica di polizia amministrativa spettante alla polizia municipale (così come a qualsiasi altro organo di polizia giudiziaria), al fine di giustificarne il coinvolgimento, fino all’uso della forza, nella esecuzione del trattamento sanitario risulta oggettivamente improponibile, incomprensibile e - sotto certi aspetti - addirittura temerario.

La funzione della polizia municipale, seppure a distanza dall’ammalato come auspicato dai padri della legge 180, parrebbe dunque meglio riconducibile, semmai, alle qualifiche di polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza, la prima in relazione alla necessità di repressione di eventuali reati in danno dell’ammalato da parte degli incaricati della esecuzione del T.S.O. o di soggetti estranei e la seconda riguardo alle iniziali turbative dell’ordine e della sicurezza pubblica che dovessero derivare dalla concreta ipotesi di reazioni inconsulte da parte dell’ammalato da ricoverare. In questa ultima eventualità, oggettivamente quella di maggior rilievo in termini probabilistici, va tuttavia ricordato che alla polizia municipale competono solo funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza ai sensi dell’art. 3 della legge n. 65 del 1986, secondo cui “gli addetti al servizio di polizia municipale esercitano nel territorio di competenza le funzioni istituzionali previste dalla presente legge e collaborano, nell'ambito delle proprie attribuzioni, con le Forze di polizia dello Stato, previa disposizione del sindaco, quando ne venga fatta, per specifiche operazioni, motivata richiesta dalle competenti autorità”.
Da tanto deriva, aderendo al quadro normativo, che anche in occasione dei TT.SS.OO. la responsabilità dell’ordine pubblico non si vede come possa essere integralmente posta ad esclusivo carico dei vigili urbani.

Quanto alla indicazione ministeriale che pretende di affidare ai vigili urbani la scorta anche al di fuori del territorio comunale, l’individuazione dei riferimenti giuridici a fondamento di una siffatta soluzione risulta ancor più problematica che nei casi precedenti.
Vero è che l’art. 4 della legge n. 65, che disciplina l’ordinamento della polizia municipale, reca anche la previsione della possibilità di missioni esterne al territorio ma ne subordina tassativamente l’effettuabilità ai soli fini di collegamento e di rappresentanza nonché, per le vere e proprie operazioni di polizia, allo stato di flagranza di illeciti commessi nel territorio di appartenenza e proseguiti al di là dei confini comunali ovvero a operazioni di soccorso in presenza di calamità o di rinforzo ad altri Corpi in particolari occasioni stagionali o eccezionali.
Su tali presupposti, del tutto estranei alla materia dei TT.SS.OO., pare allo scrivente che la scorta al mezzo di trasporto di un ammalato al di là del territorio comunale, ancorché autorizzata dal Sindaco, nel momento stesso in cui ne siano varcati i confini comporti invece, per i vigili urbani, innanzitutto il divieto di porto dell’arma in dotazione, quindi la automatica ed immediata perdita temporanea di efficacia di tutte le qualifiche di legge ed infine la conseguente illiceità di qualsiasi attività di polizia.
In tali condizioni, tanto varrebbe affidare la scorta, forse anche con maggiore aderenza allo spirito della legge 180, a personale dei servizi sociali, dovendosi comunque ricorrere - per le esigenze di polizia che dovessero insorgere durante il viaggio - esclusivamente agli organi di pubblica sicurezza dei territori via via attraversati.

Al termine della estesa disamina della materia, va però detto - avviandosi alle conclusioni - che le situazioni di fatto ormai consolidatesi in troppe realtà locali con il passivo adeguamento alle indicazioni ministeriali non sembrano lasciare purtroppo molto spazio all’ottimismo, riguardo ad ipotesi di cambiamenti più aderenti ai dettati normativi di riferimento. Ciò nondimeno, essendo la speranza l’ultima a morire, merita ugualmente che ciò che si pensa sia detto e che si tirino le somme, perché, comunque, “domani è un altro giorno” e “non si sa mai”.

In sintesi, dunque, va ribadito innanzitutto come le disposizioni di legge richiamate dal Ministero stesso non abbiano pregio adeguato alle conclusioni e come dalle stesse derivi invece che nei TT.SS.OO. il ruolo naturale della polizia municipale sia da ritenersi solamente quello di collaborare, ove occorra, alla localizzazione dell’ammalato e di verificare poi che l'ordinanza sindacale sia portata a compimento da parte degli operatori sanitari.
Eppure, benché né la legge 180 né la legge 833 (Riforma sanitaria) contengano alcun riferimento alla polizia municipale, a livello ministeriale (Circolare del Ministero della Sanità - Direzione generale Ospedali 21/9/1992 e Circolare Ministero dell’Interno del 24/8/1993) si è arrivati ad affermare espressamente - non avendo mai trovato dall'altra parte un interlocutore serio, preparato e soprattutto univoco - che “qualora ogni possibile intervento del personale sanitario si dimostri vano e si renda necessario l’uso della coazione fisica per vincere la particolare resistenza opposta dal paziente, subentra la specifica competenza della Polizia Municipale istituzionalmente chiamata a provvedere all’esecuzione del provvedimento”.
Su questo punto, in particolare, sindaci e operatori della polizia municipale farebbero tuttavia bene a riflettere, in vista delle responsabilità di varia natura che potrebbero derivarne.
La qualifica di polizia amministrativa, chiamata in causa per reclamare la competenza della polizia municipale all’uso della forza per l’esecuzione dei TT.SS.OO., a prescindere dal fatto che non abbia niente a che fare con le operazioni di cui trattasi abilitando esclusivamente agli atti di accertamento in materia di violazioni depenalizzate, come già detto di per sé NON consente in nessun caso l’uso della forza non solo da parte della polizia municipale ma neanche ad opera degli organi di polizia statali. Il ricorso all’uso della forza da parte della polizia (statale o municipale) deriva infatti soprattutto dalle qualifiche di polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza ed è consentito, in particolare, per evitare la commissione di reati e per vincere resistenze intese ad impedire agli agenti il compimento di atti di ufficio o di servizio, vale a dire in situazioni e per esigenze del tutto estranee a quelle ravvisabili nel rapporto con un soggetto affetto da disturbi mentali certificati.
In concreto, inoltre, va poi ricordato che l’uso della forza, anche laddove fosse consentito, presuppone in ogni caso che l’organo di polizia disponga effettivamente della forza. Sul piano normativo, infatti, va segnalato che la legge 1° aprile 1981, n. 121, sull’ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza, all’articolo 16 stabilisce che ai fini della tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica sono “forze di polizia” la Polizia di Stato, i Carabinieri, la Guardia di finanza, nonché - limitatamente ad alcuni servizi - la Polizia penitenziaria e il Corpo forestale dello Stato. Come si evince, la polizia municipale, così come la polizia provinciale, non rientra tra le “forze di polizia”, pur essendo da ritenersi “organo di polizia” con competenze praticamente generali, ancorché relativamente al solo territorio degli Enti di appartenenza e con la già citata limitazione in materia di pubblica sicurezza (ausiliari), e come tale non ha neppure titolo per essere dotata dello sfollagente consentito alle “forze di polizia” statali. Conseguentemente, anche per tale via va ribadito fino alla ripetizione lo stupore per il fatto che in tema di TT.SS.OO. il Ministero individui l’organo abilitato all’uso della forza proprio nella polizia municipale in funzione di polizia amministrativa, vale a dire in un organo di polizia non inquadrabile tra quelli che istituzionalmente dispongano della forza e addirittura nell’ambito di una attività di polizia amministrativa che concettualmente non ammette uso della forza neppure da parte di quegli organi di polizia che della forza dispongano istituzionalmente.
Eppure, se non fosse che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, dovrebbe bastare poco per comprendere la già richiamata differenza che corre tra il dovere di presenziare alla corretta attuazione di un’ordinanza e l’obbligo di procedervi personalmente. Mancando una distinzione del genere, c’è da aspettarsi che qualche ulteriore circolare chiarisca che, occorrendo forzare una porta per raggiungere l’ammalato barricatosi, i vigili siano tenuti a procedervi direttamente anziché con l’intervento di un fabbro.

Da taluni si è anche e tuttora viene preteso, come già detto, di far viaggiare il vigile all’interno dell’ambulanza, addirittura anche prima dell’ordinanza sindacale, sostenendosi che la presenza dell’agente avrebbe la funzione di tutelare la sicurezza del medico e degli infermieri. In proposito, in un convegno il procuratore della Repubblica di Verona, dr. Papalia, ebbe a replicare (relata refero) a suo tempo che il “compito della polizia municipale non è quello di proteggere il medico dal malato ma di assicurarsi che il paziente non venga picchiato dai sanitari, gli unici autorizzati per legge a mettere le mani addosso al paziente in quanto professionisti specializzati nel trattamento delle patologie psichiatriche”.
In occasione di altri incontri professionali è anche capitato, invece, di apprendere direttamente che in certi Comuni l’ammalato verrebbe da vigili e da infermieri addirittura legato con corde, come un salame, e trasportato al pronto soccorso sulla base del solo certificato medico iniziale, per il rifiuto di medici di strutture pubbliche di recarsi extra moenia a esaminare lo “stato attuale” dell’ammalato al fine della convalida della proposta di T.S.O.. In altri casi, invece, la convalida del primo certificato verrebbe effettuata solo sulla base dei precedenti sanitari del paziente ed in assenza dello stesso, sostanzialmente come se si trattasse di valutare una recidiva in sede penale. A completamento del quadro, basti ricordare che in un Comune, e questo è augurabile rappresenti proprio il caso limite, gli agenti di polizia municipale asserivano invece tranquillamente di praticare essi stessi all’ammalato una iniezione di valium prima di procedere al trasporto all’ospedale con l’autovettura di servizio, naturalmente ancora una volta prima della adozione della prescritta ordinanza sindacale.

Per quanto detto finora e per non lasciare spazio ad iniziative individuali del tipo appena ricordato, quale dovrebbe essere dunque la corretta impostazione da darsi al problema?
A giudizio dello scrivente, la individuazione di una soluzione può essere abbastanza agevole, solo che si esaminino le cose con buona fede e senza la pretesa di assicurarsi situazioni di comodo a spese di soggetti estranei e che, naturalmente, si tenga conto delle disposizioni di legge che regolano la materia e le attribuzioni dei soggetti che si vogliano chiamare in causa.
In concreto, dunque, occorre prima di tutto prendere pienamente atto, piaccia o non piaccia, che il regime di polizia riservato alla malattia mentale dalla legge 14 febbraio 1904, n. 36, è definitivamente tramontato.
In secondo luogo, occorre non negare l’evidenza, rendendosi conto che è sufficiente non rinunciare all’uso della ragione per convenire - anche senza conoscere le disposizioni di legge - che gli interventi sui particolari pazienti di cui alla sopravvenuta legge 180 del 1978 hanno e non possono avere altro carattere che quello di interventi sanitari, come del resto esattamente precisato dal Ministero poco dopo l’entrata in vigore della legge 180 e prima che la vicenda fosse inquinata da interessi al di fuori del quadro normativo di riferimento.
Su questi presupposti, la risposta al quesito diviene praticamente automatica. Di fronte alla malattia, di qualsiasi natura, gli unici soggetti abilitati, legittimati e professionalmente idonei e come tali autorizzati ed obbligati - in base alla legislazione ed alla logica - a “mettere le mani addosso ai pazienti” non possono essere che medici e infermieri. L’assunto non può lasciare spazio a dubbi né ad eccezioni, perché in Italia solo medici ed infermieri possono, in misura diversa, intervenire a contatto degli ammalati, con esclusione quindi non solo di odontotecnici, maghi, santoni e guaritori, ma anche dei vigili urbani e di qualsiasi altro soggetto estraneo alle professioni sanitarie. Quando poi capitasse di aver a che fare, come spesso (non spessissimo, però) accade, con pazienti riottosi (indomabili, recalcitranti, restii, riluttanti, indocili, non convincibili e non malleabili, ribelli, violenti ecc.) i più indicati - anche a chi come lo scrivente non sa niente di medicina - parrebbero ictu oculi indubbiamente, accanto ai medici, soprattutto gli infermieri psichiatrici, ove ancora esista una qualifica siffatta.
La polizia municipale, in quanto organo di polizia giudiziaria con funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza, può avere titolo ed obbligo (se demandatavi dal Sindaco in calce all’ordinanza) di intervenire nelle fasi di ricerca dell’ammalato, eventualmente nella predisposizione e nella notifica dell’ordinanza del Sindaco, nel controllo della corretta attuazione del provvedimento da parte degli organi sanitari fino al momento del ricovero ed eventualmente (se il Sindaco lo dispone) anche nell’accompagnamento - esclusivamente a bordo del veicolo di polizia - dell’ambulanza anche al di fuori del Comune avendo però cura - in tal caso - di viaggiare senza armi e con la consapevolezza che l’unica attività consentitale al di là dei confini - in caso di necessità - consisterebbe nella attivazione del concorso delle forze di polizia di volta in volta territorialmente competenti.
Non parendo aprioristicamente ammissibile alcuna ipotesi di interventi eccedenti i limiti predetti, è opportuna, a mio parere, la consapevolezza da parte della polizia municipale che tutto quanto di diverso si fosse eventualmente reso indispensabile prima dell’intervento delle polizie dei territori attraversati dovrebbe, in caso di complicazioni penali o civili, trovare poi - in un eventuale giudizio - una adeguata giustificazione nello stato di necessità o in altre esimenti previste dalla legge.

Tra le diverse problematiche senza fondamento sollevate artatamente da molti soprattutto per interessi di bottega ed al precipuo scopo di “tirare indietro la gamba”, poi, almeno una merita invece qualche considerazione, riguardando le solite carenze di personale che anche in questo caso non consentirebbero di far fronte alle esigenze in modo adeguato.
In proposito, sull’assodato presupposto naturalmente che il servizio sanitario debba farsi interamente carico di ogni intervento sull’ammalato fin dal momento del prelievo, non può disconoscersi infatti come in Comuni al di sotto di certe dimensioni sia oggettivamente difficile l’organizzazione di una unità di operatori sanitari in grado di provvedere ai ricoveri ventiquattro ore su ventiquattro. Che il Comune si avvalga quindi in prima battuta, vale a dire per la partecipazione alla immediata ricerca dei soggetti da ricoverare eventualmente eclissatisi, per la ricezione dei certificati medici, per la stesura e per la notifica delle ordinanze, del proprio servizio di polizia municipale in quanto articolato su orari quotidiani generalmente più ampi di quelli di altri uffici comunali ha una logica del tutto in linea con i criteri di buona amministrazione che debbono caratterizzare qualsiasi ente o servizio pubblico, oltre che con esigenze reali non incompatibili con le funzioni dei vigili. Per la materiale esecuzione del ricovero, al contrario, ove il servizio sanitario non assicuri la costante operatività della unità di personale sanitario occorrente allo scopo, il Comune, tra le varie iniziative e le intese possibili, potrà provvedere a dotarsene esso stesso attraverso convenzioni con pubbliche assistenze, con operatori sanitari privati o addirittura con assunzioni dirette o in qualunque altro modo idoneo ritenuto più conveniente.
Ovviamente, per le spese conseguenti allo svolgimento di compiti spettanti al servizio sanitario l’Ente locale potrà esercitare l’azione di rivalsa nei riguardi del servizio sanitario medesimo, con le procedure previste per il recupero dei costi di esecuzioni di ufficio conseguenti ad inadempienze da parte di qualsiasi soggetto obbligato, pubblico o privato.
Naturalmente, qualunque possa essere la soluzione adottata tra quelle ipotizzate senza alcuna pretesa di dettare ad altri le scelte di loro competenza, essa dovrà prescindere in ogni caso dal diretto coinvolgimento della polizia municipale nella composizione della unità preposta alla esecuzione delle ordinanze, avendo presente come la legge preveda che per i vigili “i distacchi ed i comandi siano consentiti soltanto quando i compiti assegnati ineriscano alle funzioni di polizia municipale” (art. 4 legge 65).

Riguardo infine a quanto avvenuto fino ad oggi è da chiedersi invece, e mi si permetta di chiederlo rispettosamente a Sindaci, agli stessi dirigenti dei Corpi di polizia municipale, ai rappresentanti sindacali della categoria ed alle Regioni che non sembrano aver contrastato adeguatamente l’attuale impostazione ministeriale, se qualcuno si sia mai chiesto cosa significhi immobilizzare chi si trovi purtroppo fuori di sé per malattia psichica ed a quali rischi sia stata fin qui esposta l’incolumità dei vigili, oltre che degli ammalati e degli eventuali estranei, assecondandone l’impiego nell‘attuazione delle ordinanze più scabrose sempre, per quanto se ne sa, senza il possesso dei minimi rudimenti tecnici per l’esercizio di attività del genere, senza una provata conoscenza degli accorgimenti e delle cautele indispensabili per limitare le ipotesi di pericolo, in mancanza di qualsiasi allenamento specifico e generalmente anche senza la minima consapevolezza della reale portata delle proprie risorse fisiche in relazione a situazioni nelle quali neppure la resa può sempre garantire una via di uscita.
Allo stesso modo, è da chiedersi se risulti che in qualche bando di concorso per l’accesso alla polizia municipale siano mai stati previsti particolari requisiti fisici assimilabili a quelli eventualmente richiesti per gli infermieri psichiatrici, dato - come già detto - che per poter fare uso della forza fisica occorre innanzitutto possederla, ovvero, quanto meno, se finora sia mai stato richiesto il superamento di prove di esame teoriche e pratiche attinenti alla materia.
Al momento ciò che invece risulta con certezza è che, proprio negli anni in cui la legge n. 180 entrava in vigore, per l’accesso alla polizia municipale veniva eliminato il requisito del limite minimodi altezza per tutto il personale e quello di aver prestato servizio come ufficiale delle forze armate per il posto di Comandante. Probabilmente lo scrivente è oggi irrimediabilmente disinformato ma per le cognizioni di cui al momento dispone gli è impossibile comprendere come, sulla base del solo requisito della “sana e robusta costituzione” previsto in genere per qualsiasi dipendente comunale al momento dell’assunzione ma non soggetto ad alcuna periodica verifica successiva, per il vigile si possano tranquillamente ipotizzare poi forme di impiego caratterizzate in altri Corpi da selezioni ed allenamenti continuativi assimilabili a quelli in atto nelle forze armate.
Nessuno, in particolare tra quelli sempre pronti ad invocare anche a sproposito la prevenzione, si sente dunque in dovere, riguardo alle questioni fin qui illustrate, di prendere l’iniziativa per qualcuna di quelle riflessioni, grondanti di facile buon senso, che solitamente si fanno però solo dopo un non augurabile “fattaccio”?

Lucca 20 agosto 2007
Luigi Pinelli - Già Comandante della polizia municipale di Lucca

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